Quello che non sappiamo sulla rivolta del 24 giugno
La verità è che nessuno, dotato di buona fede, è in grado di affermare cosa sia passato nella testa del capo che ha lanciato la rivolta di Wagner e meno che mai in quella dello zar
Cosa è accaduto davvero in Russia nelle 48 ore che hanno tenuto con il fiato sospeso il mondo intero? Al di là delle ipotesi sul campo e delle più suggestive analisi nessuno infatti può ancora spiegare con certezza cosa sia andato in scena: tentato golpe, teatrino organizzato, scontro interno alle forze armate, trattativa parallela tra un ex chef divenuto mostro per volontà del tiranno che lo ha creato e quello stesso dittatore.
Molti, oggi, sostengono che quanto ci è stato mostrato – il silenzio di Putin, la marcia indietro di Prigozhin, l’intervento risolutore di Lukashenko – riveli una sostanziale debolezza del presidente russo: incapace di tenere insieme l’esercito e il gruppo di mercenari ribelli di cui a lungo si è servito per nascondere le difficoltà delle sue forze armate e al contempo per celare le atrocità più brutali laddove era necessario commetterle, specie all’estero; un leader privo di ragione, non all’altezza dei suoi omologhi sul proscenio internazionale; un capo di Stato isolato e distante dal sentiment che prevale nella società, inviso anche agli oligarchi che auspicherebbero un regime change per evitare di scontare ancora le sanzioni a cui la Russia è sottoposta.
Ma la verità è che nessuno, dotato di buona fede, è in grado di affermare cosa sia passato nella testa del capo che ha lanciato la rivolta di Wagner e meno che mai in quella dello zar.
Le 48 ore più buie di Mosca hanno prodotto un solo grande risultato: che l’Ucraina passasse, sia pure solo temporaneamente, in secondo piano.
Il primo discorso pronunciato da Putin post-tentata-rivolta di Wagner fa riferimento, solo una volta, in modo vago, alla parola controffensiva e nemmeno una volta all’Ucraina. E accende tre lampadine.
In primo luogo la rabbia con cui il presidente russo si è rivolto alla nazione, senza mai menzionare il nome di Prigozhin (ulteriore, volontaria, omissione).
In secondo luogo, la lucidità su cui lo zar ha voluto porre l’attenzione, auto-elogiandosi, nel sostenere di aver evitato ulteriore spargimento di sangue poiché le truppe Wagner sarebbero state annientate in un battibaleno.
Terzo: il tenore di normalità con cui ha voluto far emergere che il Paese e la società sono uniti.
Benché sia evidente che questo sia forse il momento di massima instabilità politica e militare da quando Putin è al potere, i fatti ci dicono che: 1. Prigozhin è esule in una location non del tutto nota, e non è chiaro che fine farà o quale sia stata la moneta di scambio per farlo tornare sui suoi passi; 2. all’indomani della marcia su Mosca il ministro della Difesa Shoigu era ancora al suo posto; 3. la rivolta è passata – per voce di chi l’aveva provocata – come una protesta dovuta a una scarsa tutela, da parte dello Stato russo, nei confronti dei combattenti di Wagner, i quali secondo una nuova legge dall’1 luglio dovranno passare sotto il controllo diretto dell’esercito di Mosca.
Sullo sfondo di questa vicenda esiste, infine, un ulteriore elemento poco chiaro: i servizi segreti Usa e quelli russi sapevano da qualche giorno almeno che Prigozhin pianificava un’azione armata in Russia. E avvisarono Putin. Nessuno però ha fermato la marcia di Wagner. Finita, per ora, con un nulla di fatto.