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Uno, nessuno, centomila Cingolani: ritratto di un trasformista

Immagine di copertina
Roberto Cingolani. Credit: AGF

Prima renziano. Poi grillino. Successivamente draghiano. Infine meloniano. La premier lo ha chiamato al fianco di Pichetto Fratin. E ora lo ha voluto alla guida di Leonardo. Se fosse un politico sarebbe stato massacrato. Ma siccome è un tecnico nessuno solleva il caso

Per un attimo immaginate solo questo: cosa mai avremmo scritto – noi, i media, il vituperato “circo mediatico” – se Roberto Cingolani fosse stato un politico. Se ci fosse stato un leader di un qualsiasi partito, cioè, a cui fosse riuscita questa straordinaria, acrobatica manovra trasformistica: essere al proprio esordio un riferimento dell’aria renziana, un eroe della Leopolda elogiato pubblicamente dall’ex premier: «È un uomo capace, competente, straordinario».

Ma subito dopo riuscire a farsi nominare ministro in quota Cinque Stelle da Beppe Grillo in persona: «Io sono l’Elevato – disse il guru M5S – lui il Supremo». E «il Supremo», designato profeta della nuova era green al governo, fu nominato ministro della Transizione ecologica.

Ma poi immaginate che questo stesso personaggio, subito dopo aver incassato la nomina passi disinvoltamente da Grillo a Mario Draghi, diventando uno dei più visibili ministri nell’esecutivo dell’ex governatore della Bce. Già questo sarebbe un prodigio. 

Il bello è che a Cingolani è riuscito anche di più, un vero e proprio miracolo: essere il solo esponente del Governo Draghi, che è riuscito a riciclarsi dopo le elezioni del 2022, un caso pressoché unico nella zoologia politica italiana. Cingolani, infatti sopravvive alla purga della corte dei tecnici silenziosi di Supermario e viene nominato – nientemeno – come consulente del suo successore, il ministro Gilberto Pichetto Pichetto Fratin.

Non è finita: è a questo punto, infatti, che il professore-supremo-tecnico-consulente fa un ulteriore  giro carpiato, e si trasforma in un protagonista di primo piano del nuovo potere meloniano, ottenendo la nomina più importante nelle partecipate che contano.

Due settimane fa, infatti, Cingolani ha battuto tutti sul filo, riuscendo a strappare – malgrado la serrata concorrenza – la poltrona di amministratore delegato di Leonardo, colosso bellico industriale che si occupa di aerospazio, di difesa e di sicurezza.

Bene, se a fare questo straordinario salto acrobatico passando per tre governi di segno opposto, e con politiche opposte (per di più proprio sulle sue materie di competenza) fosse stato un politico, l’avremmo bollato senza esitazione come un volgare «trasformista». 

Per un banale passaggio da Alleanza Democratica a Forza Italia, Ferdinando Adornato divenne oggetto di un memorabile ritratto di Massimo Gramellini, concluso dall’invito: «A Nando, facce Tarzan!». Trattandosi di Cingolani, invece, si scrive che è «un buon tecnico» e tutti applaudono.

Il che è paradossale: un politico è costretto almeno a mettere la propria faccia, nelle cose che fa, e a misurarsi sempre con il problema del consenso prima di ottenere nuovi mandati. Cingolani sembra che sia «Supremo» per decreto regio. Persino nella biografia su Wikipedia viene definito, con una qualche generosità, «indipendente». 

Tuttavia c’è qualcosa di ancora più curioso nella sua parabola, se si considera che a norma di legge la sua nomina alla guida di Leonardo sarebbe stata impossibile: è infatti vietato a qualsiasi membro del governo di assumere la direzione di una partecipata di Stato prima che sia trascorso un anno dalla fine del suo mandato nell’esecutivo.

Fosse accaduto ad un politico, avremmo avuto una indignata campagna di stampa. Ma trattandosi di Cingolani tutto passa in cavalleria: il supremo acrobatico piace a destra sinistra, nessun politico solleva il caso. 

Dopodiché qualcuno potrebbe domandarsi: ma forse questo accade perché Cingolani è stato uno straordinario ministro, ricordato per efficienza e successi? A dire il vero, dall’energia alla crisi dei carburanti, Cingolani si è distinto come uno straordinario gaffeur, e ha legato il suo nome alla più grande catastrofe energetica degli ultimi anni.

Dopo il celebre discorso di fine anno di Draghi sulla missione compiuta (la sua), forse preso dall’entusiasmo, anche Cingolani si era spinto ad annunciare l’intenzione di lasciare immediatamente il governo: «Abbiamo centrato tutti gli obiettivi posti da Draghi prima del compimento dell’anno. Ora c’è un problema di implementazione. E questa fase non ha bisogno di uno con il mio profilo». Fantastico. Però poi non se ne vanno né lui né Draghi (che era convinto di trascrivere la Quirinale) e Cingo resta in sella senza fornire spiegazioni.

Pochi giorni dopo «l’implementazione» delle poderose riforme messe in campo (quali?) in materia energetica e ambientale, si scontra con la crisi energetica reale. 

Cingolani resta, le bollette esplodono, e al contrario dei Paesi iberici che da subito (molto saggiamente) emanano decreti per calmierare i prezzi, Draghi e Cingolani si infilano nella tormentata vicenda della Borsa di Amsterdam senza riuscire – per mesi – a cavare un ragno dal buco.

È in Italia – al contrario che in Spagna e Portogallo – il costo dell’elettricità sul mercato sale del 280% dal gennaio 2021 e del 650% dal gennaio 2020, mentre il costo del gas naturale tocca il suo record storico, con una corsa del 670% . Un percorso molto simile a quello degli idrocarburi, altro pasticcio memorabile. 

Tutto inizia quando nel marzo del 2022 i prezzi dei carburanti iniziano a crescere sensibilmente. Cingolani, come è noto, non è un maestro di diplomazia, e – pressato dalle critiche – arriva a fare dichiarazioni senza precedenti durante una intervista a Sky: «Qui siamo in presenza di una colossale truffa! Una o persone che viene dal nervosismo del mercato, che continuo ironicamente a menzionare, e che è fatta alle spese delle imprese e dei cittadini». Ovviamente è una bomba, e probabilmente corrispondeva al vero.

Ma dopo questa sortita Cingolani non dice altro, frena, getta acqua sul fuoco: il Governo lavora al decreto sulle accise per abbattere di almeno 15 centesimi l’aumento record. Tuttavia dopo la denuncia, e malgrado la norma, si torna verso quota 2,20 euro al litro. Una impennata che si ripeterà, fra l’altro, un anno dopo, quando Cingolani è consulente del ministro Pichetto Fratin. 

Ma al lavoro di Cingolani è legato anche l’altro grande disastro del governo Draghi, la cosiddetta tassa sull’extragettito. Una mossa coordinata così bene tra Palazzo Chigi, il mistero dell’Economia e quello della Transizione ecologica, da produrre il più grande buco di bilancio degli ultimi anni: avrebbe dovuto portare nelle casse dello Stato 10 miliardi di euro tassando (idea sacrosanta) i profitti delle imprese energetiche.

Però la misura è «scritta male» (come avevano inutilmente denunciato tanti addetti ai lavori, da Oscar Giannino al futuro ministro Guido Crosetto). Alla fine, invece di 10 miliardi, nelle casse dello Stato ne entra solo uno (seguito da una pioggia di ricorsi delle aziende).

Oltre alle geniali misure di governo, Cingolani ama anche esternare: fece imbufalire Conte parlando della necessità «di introdurre il nucleare di quarta generazione» (nel programma di governo non c’era neanche quello di seconda) e si lanciò persino in una dissertazione sui programmi scolastici guadagnando paginate con questa sparata: «Basta  studiare le guerre puniche quattro volte! Serve la cultura tecnica».

In che modo studiare le guerre puniche (tutto nei cicli scolatici si “ri-studia” dalle elementari alle superiori, per fortuna) fosse un ostacolo allo sviluppo del sapere scientifico non si è mai capito. Sta di fatto che, invece di tornare nel luogo in cui ha fatto meglio (l’Itt di Genova, che ha diretto), il Tecnico Supremo e acrobata ha preferito la designazione della Meloni alla guida di Leonardo.

Il suo predecessore, Alessandro Profumo, ha guadagnato un milione di euro l’anno più 660 mila di bonus per i cosiddetti risultati di medio termine. Con Cingolani alla guida possiamo stare sicuri che si farà di meglio.

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