Se vuoi la pace, prepara la pace

L’Europa che si riarma guarda alla conservazione del presente. Non è questo il cambiamento che chiedono i nostri giovani
«Si vis pacem, para bellum»: lo dicono e lo ripetono anche coloro che in latino non saprebbero declinare «Rosa, rosae» ma credono che faccia tanto chic ripetere all’infinito un concetto di per sé storicamente sbagliato ma oggi improponibile, visto che ai tempi dei romani non esisteva l’arma atomica e nemmeno le bombe o i carri armati. Questa precisazione non serve a nobilitare la guerra, mai, in nessuna epoca, ma a rendere evidente ciò che sosteneva Einstein, ossia che dopo la Terza guerra mondiale la Quarta, ammesso che dovesse rimanere qualche essere umano sulla Terra, si combatterebbe con pietre e bastoni, in quanto gli ordigni nucleari provocherebbero un livello di distruzione tale che non esisterebbe più nulla.
E allora, pensiamo che sia opportuno introdurre questa riflessione sull’Europa contemporanea citando una frase di Maria Montessori: «Tutti parlano di pace ma nessuno educa alla pace. A questo mondo, si educa per la competizione, e la competizione è l’inizio di ogni guerra. Quando si educherà per la cooperazione e per offrirci l’un l’altro solidarietà, quel giorno si starà educando per la pace».
I prossimi decenni
Spiace dirlo, ma non è alla pace che stiamo educando le nuove generazioni. E anche la crisi dei rapporti umani, da cui discendono la crisi delle relazioni e dei matrimoni e il conseguente crollo demografico, derivano da qui. Come potrebbe, del resto, parlare di pace, pensare in termini di pace e, soprattutto, agire secondo logiche di pace una generazione cresciuta in un tempo di guerra, la cui parola d’ordine è «riarmo»?
Senza voler minimamente polemizzare con nessuno, basta dare un’occhiata ai promotori della piazza per l’Europa che ha avuto luogo sabato scorso a Roma per rendersi conto che essa non guardava al futuro. Puntava a difendere il presente, a tenere alta la bandiera della civiltà contro la barbarie arrembante, a favorire l’arrocco di chi sente di aver molto da perdere ma non era rivolta al domani.
Ottocento miliardi di euro spesi in armi, d’altronde, possono servire al massimo a difendere, o a illudersi di difendere, case, pensioni e rendite di posizione di chi ha già raggiunto gli obiettivi che possono indurre ciascuna e ciascuno di noi a sentirsi soddisfatto della propria vita, non certo a favorire l’ascesa delle nuove generazioni.
Se davvero si volesse pensare ai prossimi decenni anziché ai prossimi mesi, quella cifra considerevole andrebbe investita in scuola, università e ricerca, infrastrutture e trasporti, ambiente, tutela del paesaggio e del territorio, lavoro e sgravi fiscali alle imprese per favorire un’occupazione di qualità e caratterizzata da adeguate tutele; se poi ci si volesse occupare anche degli anziani, ne andrebbe spesa una parte per la sanità e per abbassare il costo del bollette, così da rendere possibile cucinare e riscaldarsi anche alle categorie più in sofferenza, a cominciare dai pensionati; invece armi, armi e ancora armi, derogando a tutto.
La Germania deroga alla sua proverbiale ritrosia a far debito per riarmarsi fino ai denti, la Francia vaneggia di truppe sul terreno ed estensione dell’ombrello nucleare e persino i progressisti spagnoli e portoghesi si acconciano, in un’orgia di bellicismo, furia sconsiderata e terrore che danno l’impressione di una psicosi senza precedenti.
È un’Europa isterica, dunque, quella di Ursula von der Leyen, tanto che lo stesso Michele Serra, dopo aver promosso la manifestazione di sabato scorso, è dovuto più volte intervenire per correggere il tiro, fino ad ammettere che la difesa e la deterrenza, pur necessarie, non hanno nulla a che spartire con la folle corsa ursulina alle armi, che al contrario segna la fine dell’Europa per come l’abbiamo immaginata e sognata a partire dal dopoguerra.
Figli dell’Euro
Non entriamo nel merito delle dispute interne ai singoli partiti. Ci limitiamo qui a sottolineare due aspetti. Il primo riguarda Elly Schlein, la cui ostilità a von der Leyen è nota da sempre e la cui contrarietà al riarmo restituisce un minimo di fiducia a chi non si arrende alla definitiva resa del Pd al bellicismo e alla deriva liberista che lo caratterizza da almeno un trentennio.
La questione, tuttavia, per utilizzare un’espressione cara ai promotori in buona fede della piazza di sabato scorso, è «pre-politica». Schlein appartiene, infatti, alla generazione che più di tutte sta pagando sulla propria pelle i costi della precarietà, dell’incertezza e della perdita di speranze e prospettive. È la generazione più colta, più laureata e più europeista della storia, eppure spesso non vota nemmeno, sentendosi sistematicamente ignorata. È la generazione che in Germania si è affidata ad Heidi Reichinnek e in Italia ha scelto la stessa Schlein o Avs nella versione Salis-Lucano o i 5 Stelle del nuovo corso contiano, ma ahinoi, come detto, è soprattutto la generazione che non ci crede più.
TPI esce in edicola ogni venerdì
Rivolgendosi alle ragazze e ai ragazzi del ’68 che iniziavano a dar fiducia al Pci, Enrico Berlinguer, da poco divenuto segretario, lanciò loro un appello: «Venite dentro e cambiateci». E quella generazione, in molti casi, lo raccolse. Oggi nessun partito sarebbe in grado di compiere un’azione simile, in quanto la sfiducia ha corroso le strutture democratiche e minato alle fondamenta le istituzioni. Senza contare la crisi complessiva della politica e dei partiti, visti, in particolare dai più giovani, come pachidermi inutili e autoreferenziali.
È una tragedia, ma qui siamo arrivati dopo oltre un decennio di larghe intese e governicchi il cui unico segno è stato quello della conservazione e della difesa del privilegio e dell’ingiustizia. E se abbiamo dato atto a Schlein di avere delle ragioni pre-politiche per compiere le coraggiose scelte che ha compiuto, sfidando gli insulti, l’irrisione e persino i tentativi di disarcionarla che si ripetono ormai ogni giorno, non possiamo non parlare del M5S. Basta guardare negli occhi una come Vittoria Baldino, o qualunque sua coetanea in quella compagine, per rendersi conto che l’opposizione al progetto della presidente della Commissione europea è legato a un senso di sconforto, di sgomento, di incredulità, di assenza.
Non a caso, sono le stesse persone che chiedono l’introduzione dell’educazione all’affettività nelle scuole, che vorrebbero un nuovo Statuto dei lavoratori, che si battono contro le derive di una globalizzazione sregolata ormai giunta al canto del cigno, che si oppongono al capitalismo arrembante, che hanno sognato un’Europa senza muri e hanno avuto dieci anni o poco più quando è stato introdotto l’euro; erano adolescenti nei giorni di Genova e delle Torri gemelle, universitarie quando è collassata la Lehman Brothers, appena adulte quando veniva strangolata la Grecia ed erano da poco entrate in Parlamento ai tempi del Covid e dell’invasione russa dell’Ucraina.
Sono, insomma, figlie e figli dell’incertezza e della sconfitta collettiva e hanno deciso di dire basta a tutto questo. Non cercate, pertanto, le loro motivazioni in chissà quale alchimia politichese: ascoltatele e capirete, salvando magari anche la nostra professione che, nel frattempo, ha rinunciato a se stessa.