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Home » Opinioni

La piazza pro-riarmo esiste solo nei salotti tv

Immagine di copertina
Credit: AGF

La manifestazione per l’Europa di Roma ha visto prevalere i toni bellicisti Ma nel vecchio continente le opinioni pubbliche rifiutano la “linea Ursula”

Sabato 15 marzo in Piazza del Popolo a Roma abbiamo visto sfilare la classe media, o meglio, i suoi reduci: una marea di over 60, espressione della borghesia politically correct delle Ztl. Una piazza oggettivamente piena, frutto di una mobilitazione capillare preparata da settimane di articoli e una centralità nei tg che poche manifestazioni, negli ultimi anni, hanno avuto. 

Il tutto è stato sottolineato da un’infinità di distinguo di movimenti che, nel travaglio interno del «mi si nota di più…» di morettiana memoria, hanno aderito nonostante la base contraria: è il caso di Cgil, Anpi e movimenti Lgbt. Tutti dentro, ma al contempo fuori, tutti in piazza, ma anche defilati, imbarazzati e sconcertati nello sfilare al fianco di un Calenda o di un Magi, che in alcune foto, tra bandiere della Georgia e dell’Ucraina, sembravano più simili a cavalieri templari che a rappresentanti politici. 

Una manifestazione fatta di frasi scolpite nel discorso pubblico e disseminate tra le pieghe di un’oratoria studiata per evocare più che per dichiarare, per suggerire più che per argomentare. Frasi fatte per legittimare un pulpito, non un verbo. 

Retorica
Basta leggere tra le righe dei concetti lasciati volutamente incompleti e destinati a fermentare nella mente degli ascoltatori, generando confusione, in alcuni casi sdegno, in troppi casi emulazione.

«Noi europei, viziati da ottant’anni di pace e di libertà. Diamoci una mossa» (M. Serra). «Qui si fa l’Europa o si muore» (M. Serra). «Essere contro la guerra non significa rinunciare a lottare. Non significa essere inermi» (A. Scurati). «Ai giovani dico: siete voi che dovete rimediare alle cazzate che abbiamo fatto noi» (R. Vecchioni). «Il sacro dovere di difendere la patria, e la nostra patria è l’Europa. L’arrendevolezza non ha mai impedito le guerre» (L. Segre).

Un lessico degno del miglior Marinetti, sprezzante della passività, che impone un’inevitabilità, una responsabilità storica che ricadrà sui giovani, sulla «nuova resistenza», sulla necessità di «non arrendersi». Una retorica che, mentre si dichiara pacifista, si plasma sulla logica della mobilitazione, della chiamata alle armi culturale, morale, forse anche reale. 

Chi ascolta dal selciato di una piazza un po’ attonita, taciturna, senza cori, senza motti, senza canti, avverte la sensazione di aver preso parte a qualcosa per poi scoprire che le parole d’ordine trasmesse dai telegiornali il giorno dopo sono qualcos’altro. Una sorta di La Repubblica delle Idee, in versione militante. 

Un palco imponente (sarebbe fondamentale sapere chi lo ha pagato) e un format in cui l’informazione si fa spettacolo e la protesta si riduce a una vetrina di intellettuali deluxe, più adatti a un teatro borghese che al teatro del popolo di Dario Fo e Bertolt Brecht. Un set in cui la Civitas celebrata da Renzo Piano o I pochi felici di Elsa Morante, “interpretati” da Lella Costa, hanno funto da intermezzi nel continuo sconcerto di messaggi ora strampalati, ora faziosi, ora oratori. 

Come le parole di Jovanotti sull’Inno alla Gioia di Beethoven, l’anonima rappresentante della “generazione Erasmus” che sventola il colpo di stato di EuroMaidan come valore fondante dell’Europa, o i ragazzi di Rondine Cittadella della Pace, con le voci ucraine e georgiane, in nome del «futuro europeo». 

Nessuno ha osato nemmeno nominare Netanyahu, nessuno ha avuto un decimo del coraggio di Ghali nel pronunciare il termine «genocidio» in Palestina. Un enorme studio televisivo con tanto di copione, in cui mancava solo la lunetta per applaudire al segnale della regia. 

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Cittadini isolati
Chiuso il sipario, torna il senso di solitudine che punta all’isolamento della gente comune, all’alienazione e al nichilismo intellettuale di un’intera cittadinanza. La propaganda prende per sfinimento: ripetizione fino all’ebetismo, riciclo di concetti e keywords, martellamento di una pluralità di soggetti che alternano stesse facce e stessi discorsi. Una stuola di pochi opinionisti e un pugno di privilegiati che continuano a percepire redditi a cinque zeri a patto di recitare linee editoriali in stretti solchi indicati dagli editori. 

Il resto è un esercito di giovani giornalisti precari e sottopagati, schiavi del nuovo millennio, senza possibilità alcuna di poter esprimere un concetto critico, una visione diversa e più articolata. Eppure, il dissenso è tanto. I media non raccontano di un Macron che non rappresenta la Francia preoccupata, in cui la destra di Le Pen e la sinistra di Mélenchon, contrastanti vincitori dell’ultima tornata elettorale, hanno posizioni contrarie rispetto all’invio di truppe europee in Ucraina. Il 74% dei francesi dichiara «non efficaci» le sanzioni alla Russia e, anzi, le considera lesive degli interessi europei. 

Non raccontano di un’Italia in cui nessuno, neanche la presidente del Consiglio, sposa con convinzione la proposta dei volenterosi. Il Movimento 5 Stelle di Conte è fermamente contrario, così come Avs e la Lega di Salvini. Contrarietà espressa anche dal Partito Democratico di Elly Schlein e da Forza Italia, che non dimentica le profezie di Berlusconi, il quale sull’Ucraina non solo aveva capito tutto, ma lo aveva anche detto. 

Nulla di diverso in Spagna, dove le formazioni di estrema destra come Vox e della sinistra come Unidas Podemos e Sumar si oppongono al ReArm Europe, mentre il sostegno incondizionato degli spagnoli all’Ucraina è in calo: dal 40% al 25% nell’arco di un anno. Nello stesso periodo, la percentuale di spagnoli favorevoli a una soluzione negoziata, anche se ciò comportasse concessioni territoriali alla Russia, è salita al 46%. 

Lo stesso Regno Unito, il Paese con l’opinione pubblica più interventista, nel novembre 2024 vedeva il 69% dei cittadini ritenere fondamentale che l’Ucraina sconfiggesse la Russia, mentre oggi considera l’alternativa diplomatica. Il Partito Laburista di Starmer e i Conservatori di Johnson sostengono fermamente l’Ucraina con aiuti militari e finanziari, mentre Reform Uk di Farage critica il sostegno occidentale, attribuendo la responsabilità della guerra all’espansione della Nato e proponendo negoziati con Mosca. Jeremy Corbyn si oppone al riarmo e invoca un cessate il fuoco immediato.

La Germania, intanto, tramite il suo cancelliere in pectore Friedrich Merz, ha annunciato 900 miliardi di euro da investire in riarmo nei prossimi dieci anni. Una cifra enorme, talmente preoccupante sia per i conti pubblici che per l’esplosione del debito tedesco. 

Anche in Germania il fronte politico è tutt’altro che compatto. L’opposizione è trasversale: Die Linke, la sinistra radicale con Bsw di Wagenknecht, e persino Alternative für Deutschland contestano il piano per ragioni diverse. Come nel Pd, anche nei Verdi e nell’Spd ci sono divisioni.

L’opinione pubblica tedesca riflette questa spaccatura: il 51% dei cittadini ritiene inefficaci le sanzioni alla Russia, mentre solo il 48% è favorevole all’invio di armi e aiuti militari all’Ucraina.

Numeri che svelano un grande travaglio negli europei, eppure il dibattito pubblico è ovattato, appiattito, privo di sfumature. Le emittenti televisive evitano di raccontare un quadro complesso, preferendo invece «educare l’opinione pubblica». Il risultato? Sempre più cittadini cercano risposte altrove: su X, Meta, TikTok, in un oceano di informazioni affidabili mescolate a teorie estreme, fake news, complottismi. 

È in queste pieghe che trova spazio la democratura, vedi Trump e le ultime elezioni in America. La storia insegna, ma siamo noi a non voler imparare!

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