Il fallimento di Renzi: voleva silurare Conte, e invece si ritrova all’opposizione con Salvini e Meloni
È stata – ed è – una partita complicata, che si è chiusa oltre il tempo regolamentare, con una proclamazione sospesa e un finale thrilling. Ma, alla fine, Mattei Renzi ha perso la sua sfida. In un’Aula arroventata, dopo la zuffa, la gazzarra, le urla, le polemiche sul computo del risultato, e addirittura dopo la moviola sul voto sul filo di lana del Senatore ex grillino Lello Ciampolillo, la spallata non è riuscita.
La scena dei segretari d’Aula che rivedono i video mentre la presidente del Senato Elisabetta Casellati attende per proclamare l’esito finale per un quarto d’ora è un fotogramma cult: una contaminazione quasi grottesca fra la lingua della politica e l’estetica del Var. E poi c’è addirittura il sottofinale: quello che si rivela quando si scopre che dopo Ciampolillo – ammesso in extremis perché è arrivato alle 22.14 – ha votato anche Riccardo Nencini (si potrebbe dire ai supplementari) e che entrambi hanno votato sì.
Ora, come è ormai noto ai lettori, Nencini non è uno qualunque: è il proprietario del simbolo che ha permesso a Renzi di costituire il suo gruppo alla Camera. Il che significa che, da domani, Renzi e i suoi potrebbero ritrovarsi come degli abusivi e parcheggiati al gruppo misto. Il risultato finale del governo, che durante la sospensione era fermo a quota 154, migliora perché con questi due ultimi voti sale a quota 156, molto più della maggioranza richiesta (la metà di chi ha espresso un voto): quindi, tolti i 16 astenuti (tutti renziani) i no si sono fermati a quota 140.
Come abbiamo scritto prima del voto, l’uomo di Rignano ha perso la sua sfida per un motivo bel preciso: se l’è giocata fino all’ultimo, ma forse è stato battuto peggio di come si poteva immaginare alla vigilia, e non solo per un fattore aritmetico. Per mandare a casa Conte, Renzi aveva bisogno di fare e in modo che il governo finisse in minoranza.
Ha fatto di tutto, a provato a giocare d’astuzia ma non c’è l’ha fatta. Se avesse vinto si apriva lo scenario di un nuovo governo, di cui lui diventava antipaticamente king maker e potenziale azionista. Non ce l’ha fatta, e ora il governo lavorerà per rafforzare se stesso. Dal punto di vista Costituzionale la legittimità di un governo che ha la fiducia delle Camere è inattaccabile.
Ed è per questo che Conte, avendo superato la prova, ha un secondo round a disposizione: dopo questo (che ha vinto) il prossimo, che già si prepara da oggi. Renzi – invece – di carta ne aveva comunque una sola. Il presidente del Consiglio, una volta incassata la fiducia continua a governare. E sceglie lui se provare la strada di un nuovo governo per puntare alla maggioranza assoluta: non ha bisogno (come scrive erroneamente qualcuno) di concordare una via con nessuno, in questo caso nemmeno con il Quirinale.
Ha vinto in aula, e per la seconda volta: un anno e mezzo fa con uno dei Mattei, stasera con il secondo. Per essere un dilettante se l’è cavata abbastanza bene. Questa sconfitta di Renzi, invece, è frutto di una grande debolezza: quella di aver fatto un discorso di condanna totale, con toni e temi vicini a quelli del discorso di Matteo Salvini, ma di essersi poi dovuto poi rifugiare nell’astensione, per il rischio di spaccatura di cui abbiamo parlato.
Il governo, invece, dopo aver raccolto la stessa maggioranza relativa con cui altri esecutivi hanno governato per anni (esempio illustre quello di Azeglio Ciampi) ha tutta la possibilità di scegliere il nuovo arredamento della nuova maggioranza di Palazzo Chigi: può decidere se fare un rimpasto o meno.
Oppure se tentare la strada del “ter” (il terzo governo), eventualmente allargando la sua maggioranza ad altre forze, con un nuovo patto di governo. La sua partita si gioca in due round perché tutti quelli che volevano contrattare sono rimasti alla finestra, in attesa di questa fase. Ci sono nuove maggioranze politiche – volendo – sul mercato.
Renzi invece adesso è in un luogo per lui molto scomodo: all’opposizione con Salvini e con la Meloni. E ci si ritrova con una pattuglia di parlamentari che, però, sono eletti prevalentemente nel centrosinistra. Un vero trasformista al Senato c’è e – a ben vedere – è proprio lui.
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