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Le dimissioni di Renzi e il coraggio delle opinioni (di Alessandro Di Battista)

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Illustrazione di Emanuele Fucecchi

Ieri il Senatore semplice di Firenze, Scandicci, Signa e Impruneta, al posto di vergognarsi e scomparire dalla scena politica italiana ha pensato bene di fare due cose straordinarie: auto-intervistarsi ed attaccare me, un ex-deputato senza alcuna collocazione politica.

La sua tesi è: “Non si può dare retta a Di Battista che mi attacca sull’Arabia Saudita perché lui è un trumpiano e riteneva Obama un golpista”.

Butta la palla in tribuna, insomma, e confida nell’insostenibile leggerezza della gran parte della stampa italiana che, salvo eccezioni (Domani, Il Fatto Quotidiano, TPI [Leggi anche: 5 domande a cui Matteo Renzi deve rispondere (a un giornalista)] – sembra non aver compreso la gravità dello scandalo etico- politico che coinvolge Renzi.

Riavvolgiamo il nastro. Il 2 ottobre del 2018 Jamal Khashoggi, giornalista e oppositore del regime di Riad, entra nel consolato saudita di Istanbul. Khashoggi non è un giornalista qualsiasi. È conosciuto, influente e ha avuto il coraggio di schierarsi apertamente contro le scelte del principe Mohammad bin Salman e di suo padre Salman, re dell’Arabia Saudita, e contro i bombardamenti sauditi in Yemen.

“Dai l’allarme se non esco entro 4 ore”. Queste le parole che Khashoggi dice alla sua compagna, una cittadina turca, che l’aspetta fuori dal consolato. Khashoggi sapeva che le cose sarebbero potute andare male.

Quella stessa mattina due jet privati provenienti da Riad atterrano all’aeroporto di Istanbul. A bordo ci sono agenti dei servizi segreti sauditi. Khashoggi non uscirà mai dal consolato. Verrà assassinato ed il suo corpo fatto a pezzi.

Si parla immediatamente del coinvolgimento di Mohammad bin Salman. D’altro canto è impossibile che l’intelligence saudita si fosse mossa senza l’autorizzazione dei monarchi di Riad.

Tutto il mondo sa, e, poco a poco, il mondo inizia a parlare. Escono articoli sulle più importanti testate internazionali. Il Guardian intervista Sir John Sawers, numero uno, dal 2009 al 2014 del Military Intelligenca 6 (MI6), l’agenzia di spionaggio britannica, il quale, dopo essersi consultato con i servizi segreti turchi dichiara: “Tutte le prove suggeriscono che ci sia il principe ereditario dell’Arabia Saudita Mohammed bin Salman dietro la morte di Khashoggi”.

Anche in Italia si inizia a parlare del caso. Corrado Formigli, su La7, ha il coraggio di parlare apertamente di “omicidio di Stato commesso dal regno dell’Arabia Saudita”. Renzi tace e vola [Leggi anche: Conflitto d’interenzi (di Giulio Gambino)].

Dio solo sa quante volte – dal 2 ottobre del 2018, giorno dell’assassinio Khashoggi, al 28 gennaio scorso, data dell’ultima sortita a Riad, durante la quale ha addirittura intervistato Mohammad bin Salman magnificando il suo Paese – il Senatore semplice si sia recato in Arabia Saudita.

Quante volte e quanti denari ha guadagnato con quei viaggi? Sarebbe interessante aggiungere questa domande alle 5 formulate già da Gambino, direttore di TPI. Perché, se si dovesse trattare di svariate centinaia di migliaia di euro, si capirebbe maggiormente il silenzio che ha mantenuto, lui, noto logorroico, sull’assassinio Khashoggi.

Se avesse criticato apertamente il regime saudita, se si fosse indignato per i civili massacrati in Yemen, per l’oscurantismo di Riad o per la macelleria fatta sul cadavere di Khashoggi, nessun saudita gli avrebbe più strapagato la sua attività da conferenziere.

Da Renzi, invece, non è arrivata nessuna di queste osservazioni. E il regime ha continuato a invitarlo alle sue conferenze e a pagarlo. Lecito ma immorale. Mentre attivisti e giornalisti liberi denunciano le atrocità commesse dal regime saudita, Renzi lo elogia, lo definisce “un baluardo contro l’estremismo islamico”, dunque, di fatto, lo rafforza. E intanto Riad, tramite il Fii Institute, lo paga.

Il fatto che sia legale non ha alcuna importanza dal punto di vista politico. In Italia andare a prostitute è lecito. Ma se un parlamentare che magari sostiene, a parole, i valori cattolici della famiglia tradizionale, fosse pizzicato, ripetutamente, in compagnia di una squillo, la pubblica opinione, incoraggiata dai giornali, gli imporrebbe le dimissioni.

A Renzi tutto è consentito. I giornali di destra lo criticano per le sciocchezze, tacendo sul sostanziale. Il suo ex partito chiede spiegazioni sottovoce (i renziani dentro al Pd dettano ancora legge). Salvini, come al solito, si dimostra forte con i deboli e debole con i forti ed i berlusconiani di conflitto di interessi non possono parlare.

Questa mattina ho dato un rapido sguardo ai giornali per vedere cosa ci fosse in prima pagina sulla questione Renzi-Arabia Saudita: Corriere della Sera niente, Repubblica niente, La Stampa niente, Il Giornale niente, Libero niente, Il Messaggero niente. Solo Il Fatto insiste e Renzi minaccia querele.

Il punto è semplice: così come la Persia dello Scià anche l’Arabia Saudita ha centinaia di miliardi di dollari da spendere. I fondi di investimento sauditi, oltre a pagare Renzi per i suoi sermoni, investono in tutto il mondo. Riad è oggi uno dei principali acquirenti di armi del pianeta. Ed il denaro, così come accade per l’Egitto di Al Sisi, vale più dei diritti umani.

È il capitalismo, bellezza. Ancor di più in tempi di crisi. Questa mattina il senatore Renzi, scaricando la rassegna stampa avrà pensato: “Alla grande, la cosa sta smontando”. Tuttavia c’è chi non si rassegna e, spesso in solitudine, non piega la testa, rischia rappresaglie mediatiche, e insiste. Insisto. Renzi dovrebbe dimettersi da senatore perché sapeva perfettamente che Mohammad bin Salman fosse sospettato di essere il mandante di un omicidio politico.

Inoltre sapeva che il governo dell’Arabia Saudita si fosse macchiato di innumerevoli atrocità. Altro che baluardo contro l’estremismo.

“Mentre questa operazione militare/para-militare sta andando avanti, dobbiamo usare le nostre risorse diplomatiche e di intelligence per fare pressione sui governi del Qatar e dell’Arabia Saudita, che stanno fornendo supporto finanziario e logistico clandestino all’ISIS”. Sono parole scritte da Hillary Clinton nel 2014 a John Podesta, consigliere politico di Obama già Capo di gabinetto della Casa Bianca con Bill presidente.

In questa mail, pubblicata da Assange e WikiLeaks, la Clinton scrive quel che tutti sanno. I sauditi hanno sostenuto, direttamente e indirettamente, lo Stato islamico e altri gruppi radicali islamici. L’hanno fatto in chiave anti-iraniana, essendo lo Stato islamico il principale nemico dei pasdaran di Teheran.

Non è un caso che quando il generale iraniano Soleimani venne assassinato da un drone USA a Baghdad i primi ad esultare furono proprio i miliziani dell’Isis.

Nel 2016 Noam Chomsky, uno degli uomini più liberi al mondo, ha definito l’Arabia Saudita il “centro del radicalismo estremista islamico”.

Anche il teorema dell’Arabia Saudita baluardo contro gli estremisti fa acqua da tutte le parti. Il punto, qui, è avere il coraggio di informare la pubblica opinione sapendo che chi lo fa davvero – la questione Assange insegna – rischia sulla sua pelle.

Ricapitoliamo: Renzi ha preso soldi da fondi sauditi nonostante fosse a conoscenza delle violazioni dei diritti umani di Riad, del finanziamento clandestino (almeno fino al 2014) da parte della monarchia saudita dello Stato islamico, dei bombardamenti in Yemen e dei sospetti, divenuti certezza dopo le conferme da parte dell’intelligence USA, che Mohammen bin Salman fosse il mandante dell’assassinio Khashoggi.

Veniamo a me. Ho molti difetti ma ho un pregio: dico quel che penso e penso quel che dico. Ebbene io penso che il colpo di stato in Honduras del 2009 sia stato avallato dall’amministrazione Obama. D’altro canto non sarebbe neppure una grande novità.

Quanti sono stati i golpe organizzati dagli Stati Uniti d’America? Nel 1953 la CIA guidata da Allen Dulles si sbarazzò di Mossadeq, il premier iraniano che aveva osato nazionalizzare l’industria petrolifera persiana a cominciare dalla raffineria di Abadan, la più grande del mondo in quegli anni. Aveva fatto (come Enrico Mattei più tardi) un torto alle 7 sorelle del petrolio e per questo venne eliminato dalla scena politica.

Nel 1954 Jacobo Arbenz, presidente democraticamente eletto del Guatemala, venne destituito da un colpo di stato realizzato da mercenari honduregni addestrati dalla CIA. Arbenz aveva avuto il torto di distribuire parte delle terre della United Fruit Company, l’attuale Chiquita, ai contadini del Paese.

Alla Casa Bianca c’era Eisenhower ma il deus-ex machina dell’operazione fu John Foster Dulles, segretario di Stato (come la Clinton nel 2009), nonché avvocato della United Fruit Company. Allen Dulles, suo fratello, nonché direttore della CIA in quegli anni, aveva quote azionarie della United Fruits Company. Eisenhower disse: “Ci siamo dovuti sbarazzare di un governo comunista che aveva preso il potere”.

Nel 1961 fu sempre la CIA di Dulles ad organizzare l’invasione della baia dei Porci, un’azione militare illegale avallata da Eisenhower prima e da Kennedy poi da JFK per rovesciare Fidel Castro.

Nel 1973 Salvador Allende, presidente democraticamente eletto che stava provando a realizzare la “via cilena al socialismo” venne deposto da un colpo di stato sostenuto dagli Stati Uniti. Kissinger, grande amico dell’Avvocato Agnelli, disse che “gli Stati non avevano organizzato direttamente il golpe ma avevano creato le condizioni perché avvenisse”.

Oltre ai colpi di Stato, ci sono gli interventi armati, molti dei quali promossi o realizzati direttamente per piazzare uomini graditi alla Casa Bianca al governo dei paesi coinvolti. Potremmo parlare a lungo della guerra in Vietnam, dell’invasione di Grenada del 1983, di Panama del 1989, della guerra in Afghanistan, dell’Iraq, dei bombardamenti su Belgrado o della deposizione violenta di Gheddafi voluta dai francesi con l’avallo della Clinton e di Obama, fresco Premio Nobel per la Pace.

Le conseguenze di quel nefasto attacco militare sono sotto gli occhi di tutti. In un articolo pubblicato il 30 dicembre del 2018 sul Fatto scrissi: “Obama e il suo segretario di Stato Hillary Clinton se non hanno direttamente promosso, hanno senz’altro avallato il golpe del 2009”.

È quel che penso ed è frutto di studi, letture, interviste, libri e fonti dirette. Una su tutte? Manuel Zelaya, il presidente dell’Honduras vittima del golpe. “Le grandi imprese petrolifere si sono sentite aggredite dalla mia scelta. Per questo la CIA ed il Comando Sud hanno pianificato il colpo di stato”. Queste le parole che mi disse Zelaya in un colloquio che abbiamo avuto nel 2018 a Tegucigalpa.

Zelaya, un liberale, non un comunista, aveva chiuso un accordo conveniente con il Venezuela di Chavez. “Mi hanno sbattuto fuori dal paese solo perché volevo un po’ di concorrenza sul petrolio”. La benzina in Honduras era carissima, Zelaya decise di comprarla direttamente da Chavez ad un ottimo prezzo sperando che le compagnie petrolifere nordamericane abbassassero i prezzi.

Aveva toccato le multinazionali del petrolio, i fili della luce, e ci rimase fulminato. Mi parlò di un coinvolgimento diretto della CIA e del Comando Sud. Il Comando Sud, o United States Southern Command, è un comando militare del Dipartimento di Difesa degli Stati Uniti con sede principale a Miami. Il suo compito è mantenere la sicurezza (degli interessi USA) in Sud e Centro America e nell’area del Caribe.

In Honduras non si muove una foglia senza l’approvazione del Comando. Ergo, l’amministrazione Obama era a conoscenza del golpe. Golpe che, ricordo, pose fine all’acquisto di carburante dal Venezuela riportando al centro della fragile economia honduregna le imprese USA. In poche parole ad Obama sarebbe bastato alzare il telefono per fermare il golpe. Non lo fece.

Questa è storia. C’è chi ha il coraggio di raccontarla e chi tace sapendo che il silenzio viene ben remunerato dal sistema politico-finanziario e mediatico mondiale. Per aver sostenuto che anche l’armadio di Obama fosse pieno di scheletri, vengo tacciato addirittura di simpatie per Trump. Il tutto per aver sostenuto un’ovvietà, ovvero che Trump abbia bombardato meno di Obama. Sostenere questa tesi non significa parteggiare per Trump, significa dire la verità.

Io Trump, a differenza di questi cuor di leone che tacevano quando era potente, l’ho criticato eccome. E l’ho fatto quando era presidente degli Stati Uniti d’America e non un bannato da Twitter.

Innanzitutto quando il 18 ottobre del 2016 Semprini, su Rai3, mi chiese chi avrei scelto tra Clinton e Trumpo risposi Jill Stein, leader dei verdi USA. Nella List of Jill Stein 2016 presidential campaign endorsements figura per questo anche il mio nome.

Ad ogni modo io Trump non ho mai evitato di attaccarlo. L’ho attaccato quando decise di spostare l’ambasciata USA a Gerusalemme (intervista a Radio Radicale, 6 dicembre 2017), l’ho attaccato sulla questione Guaidò (gennaio 2019), l’ho attaccato per l’omicidio Soleimani quando ho definito il raid ordinato da Trump “stupido e vigliacco” (3/01/2020). Mi sono scagliato contro le sue scelte quando in molti non avevano il coraggio di farlo.

A differenza del Senatore semplice di Firenze, Scandicci, Signa e Impruneta prendo posizioni scomode, posizioni che ritengo giuste e che, personalmente, non mi convengono. Questo perché le mie opinioni non sono in vendita, neppure per tutto l’oro di un fondo saudita.

Leggi anche: 1. 5 domande a cui Matteo Renzi deve rispondere (a un giornalista) / 2. Conflitto d’interenzi (di Giulio Gambino) / 3. Altro che Governo dei migliori, è il Governo dei conflitti di interessi (di Alessandro Di Battista)

Tutti gli articoli di Alessandro Di Battista su TPI
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