Referendum taglio parlamentari, le mie ragioni per votare No
Quando devo spiegare con una battuta paradossale le ragioni del No al taglio dei parlamentari uso questa immagine: votare Sì al referendum “per risparmiare soldi” è una argomentazione così stupida che meriterebbe un premio. Sarebbe infatti come sostenere che è necessario pagare un garage di lusso e una assicurazione da capogiro, e un superbollo, per mantenere una Ferrari, ma poi dichiarare di voler “risparmiare” sui costi dimezzando il pieno di benzina. La spiegazione è semplice: il lusso che questi finti moralizzatori vogliono colpire non è la Casta, ma la democrazia della rappresentanza, uno dei valori tutelati dalla mostra Costituzione. Per questo devono cambiarla. E così, se vincesse il Sí, la nostra costosa Ferrari resterebbe una voce di spesa invariata, anche senza benzina: perché è la struttura che paghiamo per tenere in piedi questa democrazia rappresentativa.
La cosa che ci costa più cara in questo Parlamento, infatti, non sono i parlamentari, come pensano e ripetono gli analfabeti istituzionali del Sì, ma la sontuosa macchina amministrativa del Parlamento. Dimezzando gli eletti, non si taglierebbe un solo centesimo, o uno solo di questi ricchi stipendi.
Tuttavia, mentre si avvicina sempre di più il voto sul taglio dei parlamentari, cresce l’interesse di chi fino a ieri non si era nemmeno posto il problema: bene. Non mi interessa chi ha raccolto le firme che hanno portato al referendum confermativo e per quale motivo (visto che, come vedremo, hanno già cambiato idea): meno male che si vota, qualsiasi sia il risultato. I senatori ribelli che hanno consentito questo voto appartengono a partiti diversi, e lo hanno fatto per i motivi più disparati, ma si tratta della Costituzione, è bene che si decida nelle urne.
Lo dico subito, e chiaramente: il taglio dei parlamentari è un provvedimento privo di qualunque senso logico, politico e istituzionale. Non porta risparmi, anzi aumenta gli sprechi (e tra poco spiegherò meglio perché). Diminuisce la rappresentanza, non solo quella dei diversi partiti, ma anche quella “nei” partiti, anche quella sui territori, ma anche nella società (e questa non è mai una buona cosa).
Il taglio aumenta, di fatto, la soglia dello sbarramento elettorale in modo neanche tanto occulto. Una operazione così brutale sulla carta, fatta maldestramente a colpi di forbice, imponeva delle modifiche costituzionali che sono state a lungo promesse dagli stessi sostenitori del Sí, poi addirittura poste come condizione (ad esempio dal Pd) e che infine – ovvio – non sono state votate per l’incapacità cronica dei partiti italiani di trovare un qualsiasi accordo sulle regole. Lo scempio che si è già verificato sulle ultime leggi elettorali (votare le più brutte, pensando di trarne profitto per la propria bottega) si ripete oggi sulla (contro) riforma.
Così si arriva all’ultimo giorno utile con un paradosso legislativo e con la modifica degli equilibri parlamentari più delicati (ad esempio – come vedremo – nell’assemblea elettiva della presidenza della Repubblica). Ma ovviamente non frega nulla a nessuno: la tentazione dello scombinato ma plebiscitario fronte del Sì, in queste ore, è quella di ridurre tutto ad un pronunciamento da stadio. La Casta, mai così unanime su nulla, chiede di votare contro la Casta. Verrebbe voglia di sorridere.
So bene di sostenere una opinione controcorrente e forse persino impopolare di questi tempi. Non c’è ombra di dubbio, tuttavia, che il No al referendum sul taglio dei parlamentari (il referendum “contro il Parlamento”, aggiungerei) sia in questo momento una battaglia da combattere anche se difficilissima. È cosa giusta perché la Costituzione è la pietra angolare della democrazia. Chi la cambia, anche legittimamente, nel Palazzo, con i numeri e gli equilibri del Palazzo, deve sapere che poi bisogna sempre fare i conti nel paese, con il Paese. E poi è giusto perché il voto è una igienica regola democratica.
Approvare una legge che cambia totalmente la base della rappresentanza, e le regole del gioco, è un terremoto istituzionale su cui gli italiani devono potersi pronunciare dicendo sì o no, malgrado i sostenitori del Sì abbiano a lungo accarezzato l’idea (data la percentuale bulgara con cui il testo è stato approvato in parlamento) di cavarsela senza dover conquistare nessun consenso. Un lavoretto sporco sistemato tra di loro: troppo facile.
Ma poi c’è il secondo motivo, tutto di merito: nessuno – salvo analfabeti – può negare in queste ore che il taglio sia stato fatto in fretta e male, senza nemmeno la parvenza di correttivi e bilanciamenti che sono necessari anche agli occhi di un bambino. E siccome il discorso è complesso, se leggete questo articolo dovete ripudiare le semplificazioni e mettervi comodi.
Il primo paradosso è che il taglio è, di fatto, una mutilazione del Parlamento, una amputazione a cui quasi tutti i partiti hanno detto di sì per i motivi più svariati, fra cui dominano la demagogia, la ricerca del consenso o il tornaconto politico più immediato, l’opportunità politica. Ripercorrere queste acrobazie di tutti può essere utile, perché un domani chi chiederemo tutti come sia stato possibile che accadesse.
I motivi sono i più diversi, ma la sintesi asciutta è questa: tutti dicono di sì, perché hanno un loro tornaconto. Persino molti costituzionalisti che erano contro il taglio quando a proporlo era Renzi adesso si sono miracolosamente ravveduti, e compiono vere e proprie contorsioni da azzeccagarbugli per cercare di rivendicare un unico filo di coerenza per tenere insieme due posizioni opposte.
Per il M5s, che ha promosso questa riforma, il taglio è una battaglia identitaria e costitutiva, l’unico slogan non revisionato tra quelli del 2018, una occasione per recuperare consensi sul proprio campo da gioco primogenito: l’antipolitica. Non è una argomentazione a loro favore il fatto che il taglio sterminerà l’attuale gruppo parlamentare, che perde circa metà dei consensi rispetto alle ultime polemiche e che così perderebbe anche metà degli eletti per i taglio. Quando i tacchini si buttano nel forno, significa che c’è un rischio per la democrazia, non il contrario.
Per Matteo Renzi il taglio dei parlamentari è il pezzo che sopravvive e ritorna (del suo referendum), la bandiera sventolata con più forza (e con i terribili risultati – per lui – che conosciamo nel 2016) quando era così convinto di vincere da gridare: “Se perdo vado a casa”. Fantastico. Siccome non ha – diciamo – il dono della coerenza, dopo essere stato il padre ideologico di questa tabula rasa, l’uomo di Rignano si è appena inventato – in una recente intervista – la “libertà di coscienza” per i suoi (pochi) elettori. Se non fosse un tema serio, ci sarebbe di nuovo da sorridere.
Prer la Lega, invece,- il sì che Salvini rivendica (“Sono coerente con quello che dicevo”) appare una mossa accattivante per svecchiare la propria immagine: era stata decisa con molti maldipancia ai tempi della defunta maggioranza gialloverde, cambiarla adesso produrrebbe un ulteriore choc identitario. Ciò che Salvini omette è il dettaglio che (quando stava rompendo con Di Maio) sono stati i suoi uomini a raccogliere le firme perché il voto di celebrasse. Ma, per ragione di Stato, oggi i più grandi nemici della Riforma del Carroccio sono stati silenziati.
Forza Italia in questa estate ha dato il meglio: ha avuto una capogruppo schierata per il No, la Bernini, e una schierata per il Sì, la Gelmini. Ha raccolto anche lei le firme per fare il referendum, propende per un fronte o per l’altro a seconda di chi parla, e del momento in cui si trova.
Ma è la scelta di Nicola Zingaretti che stupisce di più. Per il Pd il Sí è stato il biglietto di ingresso pagato a caro prezzo per poter entrare nel governo (quello giallorosso). Adesso il partito teme un contraccolpo politico sul governo Conte e blinda i suoi dirigenti in sofferenza (pochi) in nome della realpolitik. Quasi tutti si adeguano in nome del principio di disciplina, solo pochi spiriti liberi si smarcano, ad esempio Gianni Cuperlo. Una storia paradigmatica, la sua, visto che, da ex deputato, oggi si ritrova cassaintegrato del Pd, contrapposto da deputati del M5s che lo iscrivono alla “Casta”, godendosi la loro indennità. Comico.
La Meloni era per il Sì e lì è rimasta, cavalca l’onda di consensi che si solleva intorno a lei raccogliendo voti dal M5s e dalla Lega: non ha nessun interesse in questo momento ad opporsi, mettendo uno steccato verso chi si sta avvicinando a lei. Il suo sarebbe l’unico partito che – anche dimezzando i parlamentari – oggi per vis della crescita di consensi (enorme rispetto al 2018) aumenterebbe la sua rappresentanza.
Carlo Calenda e Rifondazione sono contrari al taglio, ed è singolare che si tratti degli unici partiti che oggi non hanno rappresentanza a Montecitorio e a Palazzo Madama. Morale della favola: molti senza convinzione, alcuni addirittura dopo aver votato contro durante il percorso parlamentare che ha portato all’approvazione (è il caso del Pd), altri cambiando idea due volte strada facendo (è il caso di Italia Viva), altri avendo propiziato il referendum e sostenendo le critiche del No, ma poi dando indicazione per il Si (è il caso della Lega), hanno costituito una maggioranza d’occasione da parlamento del popolo bulgaro, che come al solito si è esercitata sulla Costituzione in modo maldestro. Non perché avesse in mente l’idea di una nuova architettura istituzionale, ma perché pensava che questa mossa “facile” portasse voti all’insegna del No alla Casta.
Tuttavia, anche tra chi (critico con il quesito) ha raccolto le firme perché si andasse al referendum confermativo per la riforma, albergano le motivazioni più disparate. Ad esempio quella di chi pensava e sperava che questo voto potesse essere solo un escamotage per allungare la legislatura (di fatto, finché non si celebra la consultazione, non si può sciogliere il parlamento perché in caso di vittoria del Sì se ne insedierebbe uno già delegittimato).
Tra i pochissimi No c’è chi è contrario per ragioni nobili e squisitamente politiche (penso al già citato Cuperlo o ad Emma Bonino e ai radicali), e anche chi banalmente e algebricamente sa (o immagina) che con il taglio avrebbe meno possibilità di essere rieletto.
Ma su questo giornale alcuni di noi vi avevano messo in guardia, in tempi non sospetti, sulle conseguenze di questo pasticcio, ed è il momento di provare a capire cosa produrrebbe, di fatto, la vittoria del Sì, e perché molte delle argomentazioni di chi sostiene il taglio siano insensate.
Il primo e il più utilizzato slogan – risparmiare gli stipendi – è davvero una tesi grossolana e priva di costrutto: un pugno di milioni di euro sono poco o niente – attenzione – non rispetto al bilancio della Stato (è una proporzione troppo facile), ma rispetto ai costi enormi della macchina istituzionale). Ecco perché meno parlamentari non vuol dire affatto risparmiare risorse, ma piuttosto sprecarle: tutta la struttura del Parlamento, infatti, è modellata sulla dimensione dei mille eletti. È come abitare in una reggia e pagare le tasse e le bollette per una reggia, ma poi ripetersi: io “per risparmiare” utilizzerò solo due camere e cucina. Follia.
Ancora più peregrina è la tesi di quelli secondo cui (una rifrittura di vecchie tesi renziane) il taglio alleggerirebbe l’inefficienza (presunta) del bicameralismo perfetto. A parte il fatto che in questi anni di dilettanti allo sbaraglio, sia a destra che a sinistra, il bicameralismo si è rivelato un paracadute perfetto contro leggi scritte con i piedi, che hanno bisogno di essere riscritte prima ancora di essere pubblicate in Gazzetta Ufficiale (e in alcuni casi purtroppo anche dopo). Ma, a parte questo, nessuno ha spiegato a questi signori che il bicameralismo rimane in piedi, sia pure in formato bonsai?
La riduzione dei parlamentari limita il cuore della rappresentanza ai leader, la tribú dei loro sottopanza e qualche bel nome civetta. Ed è ancora più aggravata dalla cancellazione del finanziamento pubblico, messa in atto in due tempi prima da Mario Monti e poi da Enrico Letta con un’altra mossa scellerata, che all’epoca – pensate un po’ – era immaginata per svuotare i consensi del M5s abbracciando in modo omeopatico le bandiere dall’antipolitica. Il risultato di questi due interventi – da marito che si taglia gli attributi per far dispetto alla moglie – è che la soglia di accesso al parlamento è sempre più alta, e (a parte esperienze irripetibili) è sempre più difficile ricevere finanziamenti per la politica. Follia.
Ma ritorniamo alla struttura della macchina parlamentare, che rimane in piedi, come abbiamo visto, anche senza parlamentari. Questo costo fisso della macchina democratica, infatti, non può essere soppresso e/o ridotto con il taglio, ed è di fatto incontenibile: la spesa più grande (anche dal punto di vista formativo) è quella dei dipendenti di Camera e Senato assunti a tempo indeterminato (peraltro molto ben retribuiti). Trattandosi di servizi parlamentari, di commissioni, di segreterie di livello qualificato, biblioteche e uffici studi, trattandosi di spazi logistici (ad esempio i Palazzi) che sono dimensionati d’una struttura complessa e (questa di costosissima), perché si abbattesse “il costo” non basterebbero nemmeno due leggi Fornero e un paio di bombe.
Si può vendere un Palazzo, forse, e trasformare il risparmio sulla democrazia in un mercato immobiliare civetta. Come quello della cosiddetta auto blu che negli anni dell’anticasta sono addirittura aumentate. Ma non si potrebbe licenziare nemmeno uno dei funzionari che, in alcuni casi (e spesso meritatamente per il loro livello), guadagnano molto più dei Parlamentari. E forse si dovrebbe riflettere, in tal senso, sullo spettacolo penoso di alcuni deputati del M5s convinti che non riusciranno più ad essere eletti (per la regola dei due mandati o per le condizioni che abbiamo detto) che si sono buttati sull’ultimo concorso da funzionario di Camera e Senato, ovviamente nella speranza di passarlo: in queste ore dicono di voler “tagliare le poltrone”, e poi cercano una scialuppa di salvataggio della mannaia sul divanetto chesterfield.
E infine c’è la madre di tutte le battaglie, l’assemblea chiamata a votare il presidente della Repubblica: se con il vecchio sistema le Regioni esprimono il 10 per cento dell’assemblea che elegge il capo dello Stato, con quello nuovo il loro peso percentuale – rimanendo invariato – verrebbe di fatto raddoppiato. È una argomentazione che è stata sostenuta più volte da un costituzionalista raffinato come Sabino Cassese. Avrebbe dovuto essere presa in considerazione, ma nessuno l’ha raccolta, sia per la difficoltà di costruire una nuova maggioranza, sia per la considerazione (per me scellerata) che non armonizzare la riforma poteva concedere un’arma finale (in questo caso al governo) per stabilizzare il Parlamento. Di fatto è andata proprio così: e infatti non si è “armonizzato” nulla.
Se vincesse il Sì, e si dovesse votare il giorno dopo per il Quirinale, i deputati peserebbero il 10 per cento di meno e i consiglieri regionali il 10 per cento di più, con una deformazione delle percentuali prescritte, in una logica di saggio bilanciamento dei poteri, dai padri costituenti. Altra follia.
Sia il M5s che il Pd sono venuti meno all’impegno solennemente assunto alla nascita del governo giallorosso, quello compensare con una mini-riforma questo assurdo. Così come non hanno ancora votato – anche questo lo avevano promesso – una riforma elettorale che compensi il taglio della rappresentanza che si produrrebbe in caso di vittoria del Sì. In alcune regioni servirebbe il 20 per cento (a legge elettorale invariata) per portare un eletto in parlamento. Follia. Ma non frega nulla a nessuno. Questo perché le regioni più piccole, ovviamente, perdono eletti al Senato – e nessun correttivo è stato studiato per impedire questa mutilazione. Altra follia.
Ecco come mai, per tutto quello che ho detto e scritto in questi ultimi mesi su TPI, penso che ci sia una unica e saggia soluzione: non farsi incantare dalle sirene, andare tutti a votare No (il referendum è senza quorum), pensare al bene della Repubblica e non a quello dei partiti, fare affidamento sul buonsenso degli italiani che già per due volte hanno bocciato due referendum costituzionali sconclusionati: una volta a Renzi, una a Berlusconi. Se questi elettori costituzionali facessero altrettanto anche con Grillo, avrebbero operato con uno splendido potere di bilanciamento sui tentativi degli apprendisti stregoni desiderosi di imprimere il loro sigillo alla storia.
E ovviamente bisognerebbe votare contro il taglio, per tenersi stretta la più sacra istituzione democratica, in un tempo in cui il mondo sembra impestato di leader autocratici, di caudilli e di impeachment. La politica è come la biologia: le biodiversità sono una ricchezza, la monocoltura provoca disastri. Una parte importante del mondo, in questi tempi, combatte l’idea stessa del mandato democratico, e sposa (o sperimenta) l’orribile ibrido delle “democrature”: in Bielorussa abbiamo milioni in piazza contro un para-dittatore, in Turchia i parlamentari muoiono in carcere privati di tutti i loro diritti politici, in America la polizia spara sui neri, mentre Trump licenzia i ministri e dispone gli embarghi via Twitter.
La serie più bella degli ultimi anni, “Il racconto dell’ancella” (The Handmaid’s tale), racconta un futuro distopico in cui l’’America è precipitata in una dittatura liberticida, misogina, puritana, fondata sull’evocazione fanatica di precetti biblici, legge del taglione e misoginia. Una miscela deflagrante. Guardatele queste stupende puntate, dominate da una perfezione stilistica straordinaria, e guardate soprattutto la puntata in cui la protagonista, una ex donna emancipata ridotta a schiava procreativa (e stuprata a norma di legge per finalità demografiche) a metà del racconto si ricorda in un flashback il momento in cui “il Congresso” è stato sostituito dal “Consiglio” degli ottimati che ha trasformato il suo paese in una dittatura fascistoide.
Il ricordo visivo dell’ultima manifestazione democratica, finita nel sangue con gli spari della polizia sulla folla (oggi – dopo il caso Floyd – non è più così improbabile, in America) è martellato da questi due chiodi di rimorso: “Quando è cominciato tutto questo processo graduale? Dove ero mentre tutto accadeva? Perché non ho detto nulla?”. Rivedetevi questa scena mozzafiato, accompagnata da una coro di voci femminili che improvvisa sul tema struggente del concerto N1 per violino di Philip Glass, secondo movimento. Capolavoro assoluto, grande emozione, grande monito (anche per noi).
In fondo, l’ultima beffa, quando ascolto le argomentazioni più citrulle (del tipo “meno sono meglio è”, “così si risparmiano gli stipendi”, o “tanto sono tutti assenteisti”) è che questo blocco riluttante, confliggente ma unanime fra Pd e M5s, che oggi traina il Sí, realizza il punto chiave di un vecchio progetto della P2 (il mitico piano di Rinascita nazionale) e una delirante visione di Silvio Berlusconi, che quando era a Palazzo Chigi e lottava contro il Parlamento si ripeteva come sarebbe stato bello uno scenario in cui Camera e Senato dovevano essere abitato da un solo rappresentante per partito, il capogruppo, che ovviamente avrebbe votato in modo conforme alle indicazioni dei leader.
La mia esperienza in Parlamento dice l’esatto opposto: la rappresentanza estesa ha sempre portato in Parlamento, per la difficoltà di pilotare ogni eletto, persone di qualità, che i partiti subivano o mal sopportavano. Oggi, invece, il taglio si sposa con una legge elettorale orribile, voluta da Renzi, che impone liste bloccate e limita la libertà dell’elettore. Quindi noi votiamo con minore possibilità di eleggere (per riforma Costituzionale) e minor possibilità di scegliere (liste bloccate), in un coro di propaganda di latta in cui tutti i partiti ci dicono di votare Sì, proprio contro i partiti. Ennesima follia.
Ultima postilla: il coro di ingiurie anti-parlamentari di queste ore ricalca (in modo purtroppo inconsapevole, perché è evidente che è “gridata” da gente che non conosce la storia) una sorta di orrorifico “meglio di” delle peggiori argomentazioni “anti-parlamentari” del ventennio. Usare i difetti della democrazia contro la democrazia, infatti, è un trucco rozzo, e vecchio come il cucco ben noto a chi ha studiato la fine della Repubblica di Weimar. Un vento di propaganda cui rispose magistralmente Winston Churcill con una battuta memorabile: “La democrazia è la peggiore forma di governo. Esclusa tutte le altre”. Vero.
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