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Home » Opinioni

I cingolati del pensiero unico, che schedano i pacifisti come fossero alleati di Putin (di Nichi Vendola)

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Maledetta guerra! Piange il popolo ucraino travolto dai bombardamenti e dal lento inesorabile procedere degli invasori russi. Piangono i profughi incolonnati alle frontiere, con i lutti e le macerie addosso, in fuga dalla fine del loro mondo. E in Russia piangono le mamme e i papà di ragazzini mandati ignari a uccidere, a sparare su un popolo fratello, messi di colpo faccia a faccia con la disumanità dell’uccidere e con il terrore di essere uccisi. Chi davvero non versa neppure una lacrima sono i produttori e i mercanti di armi, con le loro aziende quotate in Borsa e con i loro fatturati miracolosi. E allora maledici la guerra e ti disperi: perché hai imparato da molto tempo che conta solo la legge del più forte, che il “diritto” internazionale inciampa nello “storto” nazionale, che l’Onu è diventata un acronimo leggero e di facili costumi. E sai che la parola disarmo è stata bandita dai vocabolari dei governi e dei media e che la pace non è ancora benvenuta come missione della politica e della cultura. Il fuoco su Kiev è anche l’esito di tutto questo, di una devastazione culturale e di una passività politica che finiscono col rendere più agevole il lavoro sporco di quelli come Putin. Ti disperi ma non puoi fare nulla, neppure cercare di capire, perché in guerra sono ammesse le lacrime, non le domande. E allora zitti e buoni, l’obiezione di coscienza è il vezzo delle anime belle.

Siamo tutti reclutati, forse siamo anime brutte. Chi dissente, chi coltiva dubbi, chi custodisce una bandiera arcobaleno, fa semplicemente il gioco dell’avversario. Lo dico a rischio di fucilazione, ma lo dico: è inaccettabile il bombardamento a tappeto sui poveri accampamenti del pacifismo. Ovviamente come in tutti i movimenti, anche nell’arcipelago pacifista ci sono isole di fanatismo politico o di tragicomica semplificazione di realtà maledettamente complesse. Ma in verità – lo vediamo ogni giorno – l’isteria ideologica alberga in tutti gli ambienti e ovunque è diffuso il vezzo di vestire la storia con i colori della propria verità, coltivando magari storiografie e revisionismi d’occasione. Eppure l’obiettivo della polemica pubblica sono i pacifisti, rappresentati come una grottesca e naif manifestazione di irresponsabilità e di reducismo.Ed è davvero inquietante e grave ridurre una cosa ricca e multiforme come il pacifismo a un brandello di folclore sciovinista, farne una cupa caricatura, schedare i pacifisti come in una lista di proscrizione, rappresentarli come gli “utili idioti” di Putin. La denigrazione politica e morale del pacifismo mi pare il segno di un cupo riflesso illiberale, di una grave miopia politica: per la semplice ragione che in un evo contemporaneo così disumanizzato e militarizzato il pacifismo è una risorsa, una memoria e una traccia di civiltà, un’idea alta e rivoluzionaria di organizzazione delle relazioni tra gli individui, i popoli e gli Stati. Perché disarmare l’economia, la politica, le nazioni, appare sempre più l’unico realismo accettabile dinanzi all’incombere della catastrofe.

Ma quando la politica cede il trono alle armi, il pacifismo turba e disturba: perché è il disvelamento della menzogna implicita in ogni guerra, perché pone una domanda aperta e ineludibile sui destini dell’umanità. E chiede di essere preso sul serio e non strattonato dai cingolati del pensiero unico. A che serve o a chi serve rappresentare il pacifismo come intelligenza col nemico, diserzione, fuga ingenua dal dovere di cavalcare la storia? Forse il racconto delle armi, oggi come ieri a Baghdad o a Kabul, non tollera controcanti? Evidentemente la guerra ha bisogno di uomini in uniforme e di pensieri uniformi. Diciamo la verità: la forza dell’anti-pacifismo è nell’essere un prodotto speciale della “dittatura del presente”, nel suo inibire qualunque percorso di approfondimento del passato (per esempio le cause oppure le conseguenze di un conflitto armato) e contemporaneamente nel suo vietare qualsiasi idea di futuro che non sia la replica delle medesime politiche di potenza che, com’è noto, portano in pancia gli embrioni della guerra.  Non abbiamo mai potuto fare un bilancio di verità delle guerre fatte. Come se fingessimo di non sapere come è andata a finire in Iraq, in Afghanistan, in Libia, in Siria, nei Balcani. E in ciascuna guerra, come un filo rosso che tutte le lega, sempre si è aperto il fronte incandescente della caccia ai pacifisti. Perché la guerra detesta la pace. Ma non si accontenta solo di combattere in trincea. Vuole vincere nelle retrovie. Vuole la resa culturale. L’unico disarmo consentito è quello dei nostri cervelli.

Continua a leggere l’articolo sul settimanale The Post Internazionale-TPI: clicca qui

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