Altro che principio di uguaglianza: ecco perché l’Italia è sempre più spaccata
Non solo la pandemia: l’aumento delle disparità va avanti dagli anni Duemila. E i più penalizzati sono i giovani, le donne e i cittadini del Sud. L'approfondimento di TPI sulla "Costituzione tradita", che riguarda l'articolo 3 della nostra Carta fondamentale
La parità dei cittadini davanti alla legge è ciò a cui aspira l’articolo 3 della Costituzione, che però non si limita a sancire l’uguaglianza in senso formale, ma prevede che lo Stato si impegni attivamente dal punto di vista politico, economico e sociale per creare le condizioni per il «pieno sviluppo della persona umana», cioè affinché tutti i cittadini abbiano la possibilità di realizzare le proprie aspirazioni. Ciononostante, da alcuni anni a questa parte, le disuguaglianze economiche e sociali, anziché continuare a restringersi, si sono allargate. Dall’inizio del nuovo millennio al 2020, le quote di ricchezza nazionale netta detenute dal 10 per cento più ricco degli italiani è cresciuta di 2,5 punti percentuali, mentre la quota della metà più povera ha mostrato un trend decrescente, riducendosi complessivamente di 4,6 punti percentuali, come evidenzia il rapporto “Disuguitalia” pubblicato da Oxfam sulla base del Global Wealth Databook 2021 di Credit Suisse. Alla fine del 2020 la distribuzione della ricchezza nazionale netta vedeva il 20 per cento più ricco degli italiani detenere oltre 2/3 della ricchezza nazionale, il successivo 20 per cento era titolare del 18,1 per cento della ricchezza, mentre il 60 per cento più povero appena il 14,3 per cento.
A parlare di un vero e proprio tradimento dell’articolo 3 della Costituzione è Andrea Morniroli, co-coordinatore del Forum Disuguaglianze Diversità (Fdd). «Per anni ci è stato raccontato che le disuguaglianze sono il prezzo inevitabile da pagare allo sviluppo. Invece le politiche liberiste hanno via via allargato le ali della povertà e della vulnerabilità». L’indice Gini, messo a punto all’inizio del secolo scorso dall’economista, statistico e sociologo Corrado Gini per misurare la concentrazione della ricchezza di una popolazione, evidenzia l’aumento delle disuguaglianze nel nostro Paese dal 2007. Da quell’anno l’indice è infatti in tendenziale salita, essendo passato dal “più egualitario” 0,329 fino al 0,352 calcolato sulla base dell’ultimo dato della Banca mondiale e della Banca d’Italia, aggiornato al 2018: un dato che ci pone tra i Paesi peggiori in Europa, prima di Bulgaria, Romania, Lituania e Lussemburgo.
Per l’Fdd, l’aumento delle disuguaglianze è l’esito di tre grandi fattori. «Il primo è un’inversione a U delle politiche pubbliche, che hanno smesso di redistribuire ricchezza», dice a TPI Morniroli. «Il secondo è la perdita sostanziale di potere del lavoro, con uno squilibrio a favore del capitale rispetto alla forza lavoro. La terza ragione è che i poveri sono visti come categoria negativa, come responsabili della propria condizione. Un concetto che passa anche tra le forze progressiste di sinistra, che sembrano aver dimenticato uno dei propri principi, cioè che la povertà non è mai una condizione volontaria. Da tutto ciò è evidente che l’articolo 3 viene profondamente tradito».
La disuguaglianza è legata a diversi aspetti della vita, non solo a quello economico, ma a fattori sociali, generazionali, ambientali, territoriali e di genere, come spiega a TPI Andrea Roventini, professore ordinario di economia politica alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, che ha pubblicato insieme a Demetrio Guzzardi, Elisa Palagi e Alessandro Santoro, uno studio intitolato “Reconstructing Income Inequality in Italy: New Evidence and Tax Policy Implications from Distributional National Accounts”, che esamina le disuguaglianze dei redditi in Italia dal 2004 al 2015. «Rispetto agli studi precedenti abbiamo rilevato che la disuguaglianza in Italia è peggiore di ciò che si pensava», dice Roventini. «Coloro che vengono classificati come giovani hanno subito maggiori perdite di reddito dal 2008 in poi. Inoltre, più si sale sulla distribuzione del reddito e più bassa è la percentuale di donne. E infine c’è la dimensione del rapporto Nord-Sud, in cui la disuguaglianza territoriale non si è ridotta nel corso del tempo».
Secondo i dati raccolti da Oxfam, nei 21 mesi intercorsi tra marzo 2020 e novembre 2021, il numero dei miliardari italiani nella Lista Forbes è aumentato da 36 a 49. «La pandemia da questo punto di vista è stata un’occasione persa», spiega Morniroli. «Ha agito come il luminol della polizia, facendo emergere le tracce di quel che già non funzionava. Ci ha sbattuto in faccia che la questione non era tornare alla normalità di prima, ma a una normalità diversa. Per un po’ ci abbiamo anche creduto, ma ora ce lo siamo già dimenticati, persino l’importanza del Sistema sanitario nazionale già è quasi un ricordo, con nuove spinte alla privatizzazione dell’intero sistema». Ma l’aumento delle disuguaglianze in Italia era iniziato già molti anni prima. Dal 1995 al 2016 si è verificata una vera e propria “inversione delle fortune”, come rileva lo studio “The Concentration of Personal Wealth in Italy 1995-2016” di Paolo Acciari, Facundo Alvaredo, e Salvatore Morelli. In questi anni lo 0,1 per cento più ricco ha visto raddoppiare la sua ricchezza netta media reale, facendo crescere la sua quota dal 5,5 al 9,3 per cento. Al contrario, il 50 per cento più povero controllava l’11,7 per cento della ricchezza totale nel 1995, e il 3,5 nel 2016.
Il contrasto alla disuguaglianza è oggi tra i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile elaborati dalle Nazioni Unite nell’Agenda 2030. L’Sdg (Sustainable Development Goal) n°10 impegna gli Stati a «Ridurre l’ineguaglianza all’interno di e fra le Nazioni». Tuttavia, nel raggiungimento di questo obiettivo specifico, l’Italia è penultima in Europa, come ha evidenziato il report «La situazione dell’Unione europea rispetto agli Sdgs», elaborato da Asvis, l’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile, e presentato lo scorso 10 giugno, che offre una prima valutazione quantitativa dell’impatto della pandemia sul raggiungimento degli obiettivi fissati dall’Onu.
Per raggiungere questo scopo, il Fdd ha redatto 15 proposte. «Oggi è fondamentale una revisione del reddito di cittadinanza, per rimettere un po’ più in pari chi è troppo “dispari” per accedere a qualsiasi tipo di contratto. Per questo durante la pandemia abbiamo parlato di “reddito di emergenza” per 6,5 milioni di lavoratori», dice Morniroli. «Poi ci sono le proposte che tendono a ri-orientare in senso democratico il mercato del lavoro oppure il salario minimo. Proponiamo di intrecciare fortemente la giustizia sociale e ambientale».
Per Roventini, il primo passo da fare è una riforma fiscale che aumenti la base imponibile dell’Irpef e assoggetti ad aliquote progressive anche i redditi finanziari. «Il 5 per cento più ricco degli italiani paga un’aliquota effettiva inferiore alla classe media», dice. «Se si considera la distribuzione non del reddito ma della ricchezza, il sistema fiscale italiano è sempre regressivo: al crescere del patrimonio si riduce l’aliquota fiscale effettiva pagata dal contribuente. Nel nostro studio noi evidenziamo che l’imposta patrimoniale è l’unico modo per correggere questo sistema e passare da un sistema regressivo ad almeno uno “flat”». Le iniziative da prendere, insomma, ci sono. Perché allora non sono state già messe in campo? «Il problema secondo me è la “siccità della politica”», sostiene Morniroli. «Una politica arida, senza coraggio, inevitabilmente produce una cronicizzazione delle disuguaglianze. Come diciamo noi del Forum, alle disuguaglianze economiche, culturali e sociali se ne aggiunge una che rende insopportabili le altre: la disuguaglianza di riconoscimento. Non si viene neanche più visti. E questo conduce al rischio di fortissime derive autoritarie».