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Quello della Polonia è un attacco allo stato di diritto che l’Unione Europea non può ignorare

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Lo scontro politico e istituzionale fra l’Unione Europea e la Polonia sta raggiungendo il livello di guardia. La pretesa certificata dalla corte suprema polacca che la Costituzione nazionale si imponga al diritto comunitario ha aperto una crepa seria nella stesa impalcatura dell’Unione. Se passasse il principio che la legislazione nazionale supera quella comunitaria verrebbero meno le basi stesse dello stare insieme.

È vero che l’Ue non è ancora, purtroppo, una federazione di Stati e tuttavia è chiaro nelle premesse dalla sua costituzione che chiunque liberamente decida di aderirvi rinuncia spontaneamente e senza diritto di recesso a porzioni della propria sovranità nazionale in diverse materie. La corte costituzionale polacca è stata come l’intera magistratura sottoposta al controllo dell’esecutivo e anche questo è un tasto dolente che l’Unione Europea non può e non deve ignorare. È una chiara lesione dello Stato di diritto.

Lo scontro, apparentemente istituzionale, in realtà è eminentemente politico. Nazioni come la Polonia e l’Ungheria, governate da forze populiste e nel profondo euroscettiche, hanno nel proprio dna un gene di sovranismo nazionalista che le rende inaffidabili. Anzi, decisamente pericolose per l’Unione nel momento stesso in cui mostrano il loro vero volto.

Anche l’Ungheria di Orban, altro paladino del sovranismo antidemocratico, ha già dato prova di sé, licenziando una legge sui minori – che dovrebbe proteggerli dalle insidie della cultura Lgbt – che contiene chiari elementi omofobi e cozza apertamente contro i principi di tolleranza, libertà e solidarietà che improntano l’Unione Europea e sono bene esplicitati nei trattati di adesione.

Orban ha addirittura minacciato il ritiro del suo Paese dall’Unione entro un decennio se l’Ue non cesserà di minacciare sanzioni e condannare la politica di Budapest sui diritti civili. La democrazia magiara è fortemente limitata da leggi che restringono ia libertà di stampa dei mezzi di informazione, per lo più peraltro allineati per amore o per forza alla linea governativa.

Tornando alla Polonia, la dura reprimenda dei giorni scorsi da parte della presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen aveva annunciato che chi calpesta i diritti umani non riceverà i soldi del PNRR. Giocando d’anticipo il premier polacco Morawiecki aveva inviato alla Commissione una lettera nella quale, fra l’altro, sosteneva che: “il primato della legislazione Ue su quella nazionale esiste e tuttavia incontra chiari limiti”. I limiti appunto rilevato dalla corte costituzionale. Morawiecki aveva aggiunto che la Polonia “intende rispettare i trattati sottoscritti, ma non un virgola in più né una virgola in meno”.

Una posizione ribadita nel vis a vis di Bruxelles. Il premier di Varsavia ha tuttavia chiarito che la Polonia non ha intenzione di lasciare l’Unione. Una espulsione sarebbe praticamente impossibile. Diverso il caso della richiesta esplicita da parte dello Stato interessato, come avvenne per il Regno Unito dopo il referendum anti Ue del 2016. Una strada intermedia però esiste. L’art 7 dei trattati consente di congelare l’appartenenza alla Ue dello Stato che ne viola i principi fondanti; ai suoi rappresentanti viene impedito di partecipare alle riunioni del Consiglio europeo.

Ma quel che pesa davvero nel braccio di ferro in corso è la possibilità di interrompere l’erogazione dei fondi comunitari, in un momento in cui la montagna di quattrini prevista dal Next Generation Ue sta per inondare gli Stati membri. Questa eventualità gela il sangue dei governanti di Varsavia. Nel 2018 a fronte di contribuiti comunitari per 16.350 miliardi di euro, la Polonia ha versato al bilancio comunitario appena 3.983 miliardi di euro. Un’inezia. Con i suoi quasi 40 milioni di abitanti la Polonia è uno dei maggiori membri dell’Unione Europea, alla quale ha aderito nel 2004, durante la presidenza di Romano Prodi alla Commissione europea. Dal 1999 fa parte della Nato.

L’adesione alla Ue venne caldeggiata da Prodi per ragioni essenzialmente politiche. La Russia si era risvegliata dalla sbornia post comunista e minacciava di espandere la propria influenza sui Paesi dell’ex Patto di Varsavia. La Polonia si ritrovava come sempre nella storia in primissima fila. Spartita alla fine del XVIII secolo fra Austria, Prussia e Russia, era rinata come Stato indipendente nel 1918, dopo la Grande Guerra. Nel ’39 la guerra a tenaglia fra Unione Sovietica di Stalin e la Germania di Hitler in poche settimane l’aveva cancellata dalle carte geografiche.

Il governo di destra del premier Beck, ricercata invano un’alleanza operativa con Gran Bretagna e Francia, aveva rotto le trattative condotte in parallelo con l’Urss, rifiutandosi di far transitare l’Armata Rossa sul proprio territorio e ciò aveva spinto Urss a siglare con la Germania nazista l’imprevedibile patto Ribbentrop-Molotov che segnò la fine della Polonia. Liberata nel ’45 dall’Armata Rossa, la rinata Polonia finì sotto l’oppressivo ombrello sovietico. Nell’81 evitò il fraterno aiuto armato sovietico toccato ad Ungheria (‘56) e Cecoslovacchia (‘68) grazie al golpe interno del generale Jaruzelski. L’appoggio del papa polacco Karol Woytjla e le proteste democratiche innescate dal sindacato Solidarnosc di Lech Walesa spianarono la strada al ritorno della democrazia raggiunta alla fine degli anni 80. Il resto della storia racconta di uno scivolamento a destra del quadro politico che di fatto ha spinto al Polonia ai margini dell’Unione Europea.

Col senno di poi il calcolo politico di Prodi si è rivelato sbagliato o perlomeno prematuro, L’idea di sottrarre la Polonia e l’Ungheria (entrambe entrambe nel 2004 nell’Ue) all’influenza dell’Orso russo ha provocato paradossalmente un riavvicinamento col gigante ex sovietico col quale esistono affinità evidenti sulla restrizione dei diritti civili: libertà di stampa, di associazione, di tutela delle minoranze. Purtroppo la crescita democratica di una Nazione richiede tempi molto lunghi, pochi anni non bastano per iscriverla nella schiera degli Stati rispettosi dei diritti civili e sociali.

Le democrature, così sono stati definiti i sistemi a democrazia limitata, camminano con lo sguardo rivolto all’indietro. Se la Polonia (recentemente ha approvato una legge molto restrittiva sull’aborto che ha scatenato le proteste di piazza delle donne) e l’Ungheria di Orban insisteranno col muro contro muro l’Unione Europea riceverà l’ennesimo colpo basso. Questi sviluppi nefasti dovrebbero dire qualcosa anche e soprattutto a noi italiani, visto l’entusiastico e immediato appoggio di Giorgia Meloni a nome di FdI alle rivendicazioni polacche ostili al diritto comunitario. E quindi ostili allo stato di diritto.

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