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L’esclusione di Conte ha indebolito il centrosinistra e agevolato la Meloni: così il Pd ha deciso di suicidarsi (di L. Telese)

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È stato un suicidio del gruppo dirigente Pd, compiuto contro la volontà dei suoi elettori, e per giunta, è stato un suicidio non assistito, come nella strepitosa vignetta di Spinoza: “Marco Cappato va in caserma per autodenunciarsi: ‘Ho accompagnato io Letta da Calenda’”. Secondo tutti gli exit poll M5S e Pd avrebbero potuto vincere da soli, senza nemmeno bisogno del Terzo Polo.

Ma procediamo con ordine. Mentre ancora ballano i numeri degli exit poll e delle proiezioni (e danzeranno senza dubbio per tutta la notte) alcuni importanti verdetti sono già chiari.

Il primo: vince Giorgia Meloni, in un centrodestra dove i due alleati principali, che nelle lezioni precedenti erano soci di maggioranza, vengono svuotati dal successo di Fratelli d’Italia. Vince, ma con meno voti del previsto, con una coalizione che supera di poco il 42%.

Secondo: perde il centrosinistra del “campo ristretto”. Questo giornale, nel suo piccolo, non ha aspettato stasera, per dirvelo, ma ve lo ha racontato un mese fa, quando si chiudevano i giochi, quando ancora si poteva evitare il suicidio, e noi intervistavamo tutti i principali dirigenti del partito per chiedergli il loro parere.

Il primo grave errore di Enrico Letta è stato cancellare il campo largo e indebolire il centrosinistra, agevolando la corsa della Meloni. Questo lo dicono gli elettori del Pd (molti dei quali hanno dato un voto “di protesta” scegliendo Conte) non qualche opinionista radicale. E che sia così lo dimostrano gli smottamenti di queste ore. Ma lo dice soprattutto il fatto che il centrosinistra non era in partita e non lo è mai stato.

Secondo punto: Giuseppe Conte ha vinto la sua sfida, dopo essere stato sottovalutato da tutti, soprattutto dai dirigenti del Pd. Gli uomini del Nazareno dicevano apertamente di considerare “finito” il M5S, sopratutto dopo il voto delle amministrative. Non hanno capito, dunque, che in quelle elezioni Conte non era in campo. E un altro regalo straordinario glielo hanno fatto quello che gli hanno organizzato una scissione “draghiana” in casa. L’addio di Luigi Di Maio e degli altri sessanta parlamentari al Movimento – paradossalmente – non sono stati una emorragica come scrivevano i giornali, ma é diventerò parte del processo di rigenerazione dei nuovi cinque stelle.

Altro punto di analisi: la mobilità elettorale, stando ai primi dati, è dentro i singoli campi. Non tra una coalizione e l’altra. Se anche il campo largo avesse perso per strada 5 punti – dunque – perché assumeva un’altra configurazione, avrebbe vinto lo stesso.

Infine un nodo cruciale. Nicola Zingaretti aveva rigenerato l’immagine del Pd dopo la ferita drammatica del renzismo. Aveva trasformato il suo partito nella forza cardine dell’alleanza giallorossa. Invece, in questa campagna, il gruppo dirigente post-democristiano, post-renziano e post-comunista del Pd, che al contrario dei suoi elettori del tutto appiattito sul governiamo di Palazzo, ha fatto di tutto per distruggere quel lavoro e ha ricostruito l’immagine di una élite presuntuosa, autoreferenziale e a tratti persino arrogante.

L’altro orrore di queste elezioni è stato il Rosatellum: chi scrive lo dice e lo ripete da cinque anni, TPI ha lanciato molte grida di allarme. Si tratta di una legge che regala una maggioranza inopinata ad una minoranza di massa: scritta da Matteo Renzi quando era convinto di avere il 40%. E come come sempre capita, una legge varata con un colpo di mano, imponendo addirittura il voto di fiducia (l’ultimo che lo aveva fatto si chiamava Bonito Mussolini) colpisce quelli che l’hanno votata pensando di fregare gli altri. A cinque anni di distanza, per giunta.

Altro tema importante: persino la Cgil, ignorata e inascoltata si era dichiarata “non schierata nel voto”. Hanno pesato gli errori -soprattutto il campo economico del governo Draghi – pesa la mancanza di intervento sulle bollette e sulla crisi energetica, pesa la mancanza di dialogo con il sindacato sul tema cruciale delle pensioni.

Ma una cosa va detta sul dibattito a sinistra. Adesso daranno tutta la colpa della sconfitta a Letta, cercando di trasformarlo in un capo espiatorio e invece intorno a se il segretario non ha avuto nessun parere critico con l’unica eccezione di Goffredo Bettini, che nella direzione decisiva spiegò che si andava vero uno harakiri. Il suicidio di Letta non è stata la scelta di un uomo solo. È stato un errore corale, il punto di approdo di un pezzo di gruppo dirigente incapace di ascoltare i suoi elettori. Un coro di conformisti che non ha fiatato perché temeva le liste, esclusivo appannaggio – in virtù del Rosatellum – del leader di turno. Solo Zingaretti e Francesco Boccia, pur rispettando la linea, avevano espresso la loro preferenza per il campo largo. Resterà fuori dal parlamento -molto probabilmente – Luigi di Maio. Prende una tranciata Matteo Salvini e il 10% che fu il record Umberto Bossi).

Ma a maggior ragione -data questa debolezza – il più grande errore di queste elezioni é stato quello del centrosinistra, che si può riassumere così, con il caos delle agende. Il Pd é entrato in campagna elettorale impugnando in una mano “l’agenda Zelensky” e nell’altra “l’agenda Draghi”. Le ha dovute abbandonare precipitosamente entrambe, a metà del suo viaggio elettorale.

La posizione sulla guerra ha rotto un rapporto profondo del partito con la propria base, contraria all’invio delle armi in Ucraina. E forse anche il risultato positivo del polo rossoverde risente di questo inspiegabile stravolgimento del codice identitario più profondo. L’ultima follia, poi, è stato tenere fuori Conte usando come pretesto la non fiducia a Draghi. Ma poi alleandosi con Fratoianni, unico orgoglioso oppositore del governo, da sinistra. Un doppiopesismo incoerente e non spiegabile.

Una schizofrenia che ha toccato il suo epilogo nella surreale trattativa con Carlo Calenda. Sacrificare Conte, infatti, serviva a Letta a recuperare con i centristi, ma quel sacrificio, oltre che ad essere sbagliato è stato vano. Infatti, come è noto, poi Calenda ha rotto il patto, buggerato e tradito Letta (dopo aver persino aver fatto le foto di rito) creando l’ennesima rottura. Per questo l’ultimo prodotto di questo voto è uno strappo nella leadership: Stefano Bonaccini è già in campo da forno, il congresso del Pd è già iniziato.

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