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La rivincita di Zingaretti, che resiste alle correnti del No e lancia il PDSÌ

Immagine di copertina
Illustrazione di Emanuele Fucecchi

“Ci sono due persone che si stanno spendendo per questa battaglia più di tutti: Nicola Zingaretti e il sottoscritto. Vi pare normale”. E subito dopo: “Ma come mai Di Maio fa campagna tutti i giorni in Puglia, dove è in corsa contro il Pd e non in Liguria, dove siamo alleati?”. Queste due frasi affilate di Goffredo Bettini, con il loro sottointeso vagamente amaro, la dicono lunga sulla fase delicata del Pd e del suo segretario, sul momento cruciale che la leadership di “Zinga” ha superato ieri.

Battersi contemporaneamente per le regionali e per il referendum, come se fosse la battaglia più delicata in cui si gioca la scommessa di una segreteria, dover difendere insieme le sue due scelte strategiche: il governo delle Regioni e l’alleanza giallorossa, l’accordo sul taglio dei parlamentari. La direzione del partito di ieri ha chiuso i suoi lavori, con un voto a sorpresa, un periodo di grande irrequietezza interna.

Erano apertamente contrari da giorni – e anche nel dibattito di ieri – dirigenti come Gianni Cuperlo (leader della sinistra interna), Luigi Zanda (ex tesoriere, uomo vicinissimo al segretario) e Rosy Bindi (forse la figura più forte tra coloro che vengono dal Ppi). E poi c’era un diffuso maldipancia, tra molti dirigenti importanti: il capo delegazione al governo Dario Franceschini, per dirne uno. E poi Matteo Orfini e la sua corrente, per citarne un altro. La posta in palio era delicatissima, perché il M5s aveva fatto sapere che considerava il sostegno al Sì al referendum come una precondizione per proseguire nell’alleanza. Insomma, un bel dilemma, in cui c’erano tutte le condizioni per una rottura con esiti imprevisti.

Zingaretti è riuscito ad uscire da questa situazione incassando a sorpresa un voto quasi bulgaro: 188 sì, solo 13 no (anche grazie alla novità del silenzio assenso telematico). Un risultato ottenuto con unghie, denti, e grazie una profonda conoscenza della macchina-partito, dei suoi riti: il segretario ha diviso le votazioni, dando la possibilità a chi era contrario di differenziarsi sul no, ma di approvare la sua linea con il voto sulla relazione. Poi ha accolto la proposta di “raccolta firme per il bicameralismo differenziato”, voluta da Luciano Violante, recuperando così un punto di differenziazione dal Movimento, ma anche un voto pesante, proprio quello dell’ex presidente della Camera (che aveva già annunciato la sua intenzione di votare No). E alla fine ha ottenuto anche che l’area Orfini non votasse per il No, limitandosi ad astenersi.

Come in un complicato sudoku, ha trasformato un possibile rischio rigetto del referendum in un voto pressoché unanime. Tutto questo, però ha un prezzo: adesso è lui in gioco, è lui che garantisce, e lui che deve chiudere questa partita e sopire il disegno di chi vorrebbe “scalare” il Pd e imporre una nuova leadership. Non è un mistero, infatti, che Matteo Renzi sognerebbe una segreteria affidata a Bonaccini e un ritorno all’ovile (garantito dal governatore dell’Emilia-Romagna), dopo il fallimento di Italia Viva (che non decolla nei sondaggi e non trova radicamento politico).

Qui si torna alle frasi-chiave di Bettini. Esattamente come un anno fa Zingaretti scommesse sul governo quando nessuno ci credeva, oggi il segretario deve riuscire a difendere insieme il governo che ha costituito e le Regioni dove Matteo Salvini sta dispiegando la sua offensiva con un solo obiettivo: far cadere il governo grazie alla spallata delle amministrative. Per questo Zingaretti deve evitare il 5 a 1 (vincere nella sola Campania, che sarebbe una indubbia sconfitta) e sogna di portare a casa un 3 a 3: aggiungendo, cioè, alla vittoria di De Luca quella di Giani in Toscana (un candidato scelto da Renzi che sta faticando più del previsto) e di Emiliano in Puglia (un governatore che dovrebbe riuscire in un mezzo miracolo, data la forza del M5s, che corrono da soli).

Ecco perché, per concentrarsi su questa battaglia, Zingaretti aveva bisogno di disinnescare la mina referendaria: adesso, qualunque sia il risultato, il problema nella maggioranza è risolto: nel bene e nel male l’alleanza arriva unita a referendum costituzionale. E se poi riuscisse l’impresa della Puglia, il segretario potrebbe dire ai suoi alleati: “Io sono fedele, ma sono anche in grado di vincere da solo”.

Ed ecco l’ultima frase di Bettini, che girando l’Italia lancia il suo appello zingarettiano al voto utile: “Renzi è alleato in sole due Regioni, il M5s è contro di noi in molte altre, l’unico voto utile di questa competizione è quello per il Pd”. In palio c’è molto di più di una o due Regioni: la possibilità di finire la legislatura con questo governo, e gestire insieme a Conte la ricostruzione dopo la catastrofe del Covid.

Leggi anche: Il PD in Calabria? Non pervenuto. L’evaporazione politica dei dem tra regionali e amministrative (di A. Bausone)

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