Le primarie non sono un obbligo per il Pd. Ma senza il centrosinistra si divide (di S. Mentana)
Niente gazebo per le regionali in Sardegna né per le comunali a Firenze. Così però il Partito democratico dovrà vedersela con la concorrenza interna
In ormai oltre 16 anni di esistenza, nel Partito Democratico (Pd) sono cambiate tante cose: si sono alternati segretari diversi, la linea politica ha sposato varie posizioni. Anche il consenso è andato a fasi alterne, toccando il punto più basso nel 18 per cento delle politiche del 2018 e l’apice con il 40 per cento delle europee del 2014: sorte vuole che entrambi i dati siano stati raggiunti con Matteo Renzi come segretario.
Ma pur tra tanti cambiamenti in mezzo a una costante e reiterata crisi di identità, il Partito Democratico su una cosa ha sempre saputo andare avanti, usandola come strumento di partecipazione nonché metodo per dirimere controversie interne e pesare il consenso delle diverse aree, divenendo un tratto più che caratteristico, forse identitario del Pd: si tratta, ovviamente, delle primarie.
Con le primarie, il 25 ottobre 2007, il Pd fu fondato, sulla scia di altre primarie, quelle che due anni prima avevano incoronato Romano Prodi come leader dell’Unione, una delle coalizioni più larghe mai viste sulla faccia della terra. Primarie con cui sono stati eletti tutti i segretari del Partito da Walter Veltroni a Elly Schlein, quest’ultima è stata la prima a vincere nei gazebo nonostante gli iscritti fossero di diverso parere: forse la persona che più di tutti, in questo momento, può comprendere l’importanza di questo strumento.
Eppure, sotto gli occhi di tutti ci sono due situazioni in cui viene quasi naturale chiedersi: come mai il Pd non ha voluto fare le primarie? E queste due situazioni sono le regionali di febbraio in Sardegna e le elezioni comunali a Firenze del prossimo giugno.
Nel primo caso, infatti, i dem hanno scelto di evitare i gazebo e sostenere la candidata del Movimento Cinque Stelle Alessandra Todde. Una scelta ovviamente legittima che ha però lasciato spaesati molti militanti, che in un partito che punta a fare da perno di una coalizione si sono trovati la candidatura di un’esponente di un’altra forza politica. Uno spaesato su tutti: Renato Soru, fondatore di Tiscali ed ex presidente della Regione, che ha scelto di essere comunque della partita con una candidatura autonoma che ha ottenuto un sostegno trasversale nell’area del “campo largo” non solo da pezzi di Pd, ma da partiti che vanno da Italia Viva a Rifondazione.
E qualcosa di simile sembra destinato a succedere a Firenze (dove se non altro c’è il ballottaggio), città in cui il Pd ha scelto di mettere in campo Sara Funaro, senza primarie. Ma col rischio di aprire alla concorrenza interna, prima tra tutte quella di Cecilia Del Re.
Nel 2021, quando Carlo Calenda chiese al Pd di sostenerlo a sindaco di Roma, i dem risposero di no, fecero le primarie e le vinse Roberto Gualtieri, che oggi è sindaco. Le primarie non sono un obbligo, ma in certi casi sembrano una scelta naturale e non si capisce perché proprio in quei casi non vengano fatte.