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Pd e M5S sono già morti. L’alleanza monstre porterà al trionfo Salvini

Immagine di copertina
Di Maio, Salvini e Zingaretti, leader rispettivamente di M5S, Lega e Pd

Quello che è rimasto di questa fusione a freddo giallorossa è una specie di Democrazia cristiana 2.0 senza storia, senza programma e senza visione. Tra una Lega che grida alle viscere degli italiani e i penta-dem che da un palazzo sussurrano alla pancia, alla fine vince sempre chi urla più forte. E a perderci è sempre il Paese. Il commento di Lorenzo Tosa

Per anni li ho frequentati quei gazebi, quelle agorà, quei capannelli di persone che arrivavano da tutta Italia e, per una volta all’anno, si davano appuntamento a Italia 5 Stelle. E, se c’è una cosa su cui nessuno, dal primo tra i leader all’ultimo degli attivisti, ha mai avuto un dubbio sono sempre state quelle due letterine magiche: Pd. Ripetute quasi come un mantra. Come una chiamata alle armi. L’emblema – e il senso stesso – di tutto ciò contro cui quel goffo esercito di neofiti della politica stava combattendo. La sesta stella. Potevano anche dividersi su acqua pubblica, energia, giustizia, ambiente, ma nessuno si sarebbe mai sognato di mettere in discussione che quello fosse il primo, vero, nemico chiaro, riconoscibile, immediatamente identificabile.

E la cosa – va detto – dall’altra parte della barricata non è mai stata meno che ricambiata. È andata avanti così per un po’. Anni, direi quasi un decennio. Una pietra angolare. La chiesa attorno a cui costruire il villaggio e di cui l’alleanza con Salvini e la peggior destra razzista e xenofoba d’Europa è stato niente più che un sigillo, una naturale conseguenza.

Chi, come me, ha vissuto da vicino il Movimento 5 Stelle ha sempre saputo che sarebbe andata così, in virtù di quel retroterra populista e anticasta che, prima o dopo, sarebbe stato destinato a fondersi. E chissà per quanto tempo ancora quell’abbraccio mortale sarebbe rimasto saldato, fin quasi a ossidarsi, se non fosse stato per il colpo di sole agostano di Salvini al Papeete. Di sicuro nessuno all’interno del M5S si sarebbe mai sognato di staccare la spina. E, con altrettanta sicurezza, nessuno in quella indistinta e magmatica torma di attivisti avrebbe neanche lontanamente immaginato che l’alternativa sarebbe stato il Pd.

E invece, a distanza di meno di due mesi, eccoci qui. Quello che all’inizio doveva essere una semplice governo di responsabilità istituzionale contro la pericolosa deriva democratica dei “pieni poteri”, in qualche settimana si è trasformato in una promessa di matrimonio elettorale che dal governo si è prima estesa all’Umbria, all’Emilia Romagna, alla Calabria, e di lì alla Liguria e a tutti i prossimi appuntamenti regionali, passando per la Capitale, fino a diventare un’alleanza formale, stabile, definitiva.

Franceschini ha lanciato il sasso, Di Maio non lo ha tirato indietro. Zingaretti lo ha detto pubblicamente, e Grillo (la cui parola è tornata a contare) ha fatto di più: ha mandato plasticamente un “vaffa” a chiunque, tra i suoi, osasse alzare un sopracciglio. Il dado è tratto. Da qui non si torna indietro.

Nell’epoca della politica liquida siamo abituati a digerire in fretta scosse telluriche improvvise e violentissime. Ma qui ci troviamo davvero di fronte a un cambio di paradigma dalla portata epocale nel modo di organizzare la nostra visione e il nostro rapporto con la politica dell’ultimo decennio. E il tutto senza che nessuno abbia in realtà avuto il tempo né di elaborare una nuova proposta politica, né di preparare il terreno su cui appoggiarla. Ed è qui, esattamente qui, che vive e prolifera il germe della sua stessa distruzione.

Quando due esperienze culturalmente e ideologicamente agli antipodi si incontrano, non basta mettere sul tavolo i propri numeri e limitarsi a sommarli con la calcolatrice. Perché il rischio, quando la politica diventa un mero esercizio aritmetico, è trovare qualcuno dall’altra parte che i calcoli li fa molto meglio di te.

Fin quando si trattava di mettere insieme i numeri in Parlamento, a bocce ferme, l’operazione di ingegneria politica poteva anche funzionare. Ma quando estendi il progetto al di fuori del palazzo, misurandolo a livello elettorale, il rischio è che gli effetti collaterali superino di gran lunga quelli immaginati. Col risultato di trasformare una prevedibile sconfitta in una resa identitaria e genetica dalle conseguenze potenzialmente fatali. Per entrambi.

A prescindere da come andrà il primo banco di prova dell’Umbria, già oggi è possibile scorgere alcuni allarmanti segnali dell’alleanza “monstre” che si sta profilando all’orizzonte.

Il primo. Dopo anni in cui erano riusciti a rappresentare e a incarnare, su opposte sponde, la radicalizzazione estrema e chiarissima di due idee di società, di mondo, di futuro – e proprio per questo egemoni – oggi Pd e 5 Stelle sono due partiti tecnicamente morti, che vivono alla giornata, appiattiti sul sentire comune popolare (vedi il taglio dei parlamentari), incapaci di immaginare una propria identità e una direzione chiara, in un perenne gioco di specchi riflessi con cui gli uni cercano di inseguire gli altri senza una strategia dal respiro più lungo di un’ammucchiata anti-Salvini.

Il secondo, il più evidente. Dopo un primo momento di effetto Papeete, Salvini è tornato a fare quello che sa fare meglio: macinare voti e consenso, avendo gioco facile nell’infilare il coltello nella piaga più purulenta dell’attuale governo, la gestione dell’immigrazione. Un fenomeno epocale che non sarà risolto con un summit o con un pur ammirevole accordo di equa ripartizione tra Stati europei, e che resterà lì fino alla fine della legislatura e oltre.

Tre. Mentre Salvini cresce, Pd e 5 Stelle si ritrovano nella non invidiabile condizione di rimanere fermi, impaludati dal terrore non di dire qualcosa di sinistra, ma di dire o fare qualcosa. Basta immergere l’orecchio per qualche minuto nelle rispettive basi di Pd e M5S per accorgersi di come la reazione sia vieppiù la stessa: i primi hanno il terrore di essere “grillinizzati”, i secondi sono convinti di essersi lasciati vampirizzare, normalizzare, si direbbe quasi neutralizzare, dalla “vecchia politica”, dagli acerrimi amici dem. La verità è che hanno ragione e torto entrambi.

Oggi non c’è più traccia nei radar né dell’uno, né dell’altro partito. E quello che è rimasto di questa fusione a freddo è una specie di Democrazia cristiana 2.0 senza storia, senza programma, senza principi, senza reti di relazioni comuni, senza visione, che veleggia sulla cresta dell’onda del “sentiment” del momento nella speranza di rimandare il più possibile il momento in cui dovranno raccontare agli italiani la propria idea di società, di futuro e di sviluppo.

Tra un Matteo Salvini che da una spiaggia grida alle viscere degli italiani e i penta-dem che da un palazzo sussurrano alla pancia, alla fine vince sempre chi urla più forte. E a perderci è sempre il Paese.

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