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PD-M5S: insieme a te non ci sto più

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Solo la grandezza del duo Battiato-Caselli può consentirci di analizzare con la dovuta serenità, e anche con un pizzico di humour, una fase politica fra le più delicate di sempre.

Quando nacque questa bizzarra alleanza giallo-rossa, al termine di un’estate folle, segnata dagli eccessi di Salvini al Papeete Beach di Milano Marittima e dalla conseguente decisione di porre fine al contratto di governo fra Lega e M5S, ci venne detto che era destinata a durare per l’intera legislatura, con l’obiettivo minimo di arrivare al gennaio 2022, quando si chiuderà la stagione di Sergio Mattarella e sarà necessario eleggere un successore all’altezza, europeista e in grado di tenere l’Italia all’onor del mondo.

A settembre, poi, due dichiarazioni congiunte (Franceschini a Cortona durante una riunione di AreaDem e Di Maio in una lettera inviata a La Nazione) diedero il là a una piccola rivoluzione: i 5 Stelle, nati dal Vaffa di Grillo in piazza Maggiore a Bologna, con l’idea che destra e sinistra non esistano più e che chiunque, al di fuori di loro, sia casta, per la prima volta accettavano di porre il proprio simbolo accanto a quello di un altro partito.

E non di un partito qualsiasi ma del PD, ossia del soggetto politico la cui giunta, guidata da Catiuscia Marini, è andata a casa con un anno d’anticipo a causa di uno scandalo legato alla sanità denunciato con vigore proprio da alcuni esponenti del M5S locale.

Molti osservatori parlarono di una svolta epocale. Un cambio di passo, la trasformazione di un accordo frutto della disperazione e di una volontà comune, che andava ben al di là delle due compagini in questione, di non consegnare il Paese a Salvini, in un’alleanza strutturale destinata a durare nel tempo.

Addio contratto, addio diffidenza, addio reciproco astio dopo un decennio trascorso a dirsene di tutti i colori, Di Maio che a Di Martedì arrivò a elogiare il Partito Democratico, sostenendo di essere rimasto favorevolmente impressionato dai suoi esponenti: insomma, una mutazione genetica con pochi precedenti nella storia d’Italia.

È bastato il voto umbro, una disfatta di proporzioni storiche per PD e 5 Stelle (scesi, questi ultimi, addirittura sotto la soglia psicologica del 10 percento), una vittoria che lo stesso Salvini ha ammesso a Porta a Porta che non si aspettava di queste dimensioni, per far crollare ogni schema, tanto che oggi nessuno, in casa PD, se la sente più di escludere il voto anticipato.

Parliamoci chiaro: questo governo andava fatto ma non così. Il problema non è l’oggetto ma il come. Il punto è che lo stesso Prodi, tra i principali sostenitori dell’alleanza giallo-rossa, aveva benedetto l’accordo, in un articolo sul Messaggero, a patto che fosse preceduto da due congressi programmatici da parte di entrambi i partiti.

E che dire di Goffredo Bettini, mentore di Zingaretti e altro regista dell’accordo, che oggi ammette candidamente che, in caso di mancato chiarimento, il ritorno alle urne sarà inevitabile?

Il dramma del PD è che non ha sbagliato adesso, in una regione destinata comunque alla sconfitta, non più rossa da anni, in evidente crisi economica, con uno sfarinamento del tessuto sociale oggettivamente sotto gli occhi di tutti.

Il dramma del PD è che ha sbagliato quest’estate, concedendo al M5S di imporre le proprie idee, la propria agenda e la propria visione del mondo senza chiedere quasi nulla in cambio, se non un tecnico al Viminale che segnasse un minimo di discontinuità rispetto alla stagione salviniana.

Una scelta, peraltro, voluta più da Mattarella che dallo stesso PD: è noto che Di Maio non disdegnasse il ministero degli Interni, costringendo il Quirinale a fargli sapere che il presidente non avrebbe accettato un altro leader politico in un dicastero così importante e delicato.

Il PD ha ceduto su tutti i fronti: dal taglio dei parlamentari, ottenuto dai 5 Stelle senza concedere in cambio alcuna garanzia concreta, al mancato smantellamento dei Decreti sicurezza, autentico baluardo del salvinismo su cui Di Maio (come dimostra anche la recente bocciatura al Parlamento europeo di una misura pro Ong a causa dell’astensione decisiva dei grillini) è sempre stato in sintonia con l’ex alleato, fino all’impossibilità di imporre all’attenzione dell’opinione pubblica un solo argomento del proprio programma.

E così, assistiamo al paradosso di un partito che discende dalle grandi culture del Novecento, con sedi, dirigenti storici, una messe di giornali e riviste d’area, peraltro molto critici nei confronti di questo esperimento, assoggettato all’emblema del partito liquido, quasi gassoso, senza sedi, in netto contrasto con buona parte del mondo dell’informazione, determinato a smantellare tutto ciò che esisteva prima della loro nascita per dar vita alla distopia casaleggiana dell’homo grillinus e dell’egemonia culturale della rete.

Ora nel PD regna il buio, con Conte che vorrebbe resistere e consolidare l’alleanza nonostante la sconfitta umbra e Di Maio, che avrebbe preferito restare con Salvini o andare a votare e venne sconfessato in agosto soprattutto da Grillo, che sostanzialmente seppellisce l’accordo e palesa tutta la propria insofferenza.

Come cantava Caterina Caselli: “Insieme a te non ci sto più” o, per restare alla stessa canzone, in forma più poetica: “Arrivederci amore, ciao”.

Peccato che di mezzo ci sia un Paese in difficoltà e che se un voto a ottobre avrebbe consegnato una maggioranza schiacciante alla destra e a Salvini, un eventuale voto a marzo, dopo il fallimento dell’alleanza ai limiti dell’impossibile fra PD e 5 Stelle, consegnerebbe alla destra un trionfo da far impallidire la landslide di Blair nel ’97.

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