L’alleanza progressista tra Pd e M5s funziona, e queste elezioni lo dimostrano
Alla luce dei risultati di questa tornata elettorale, il dato chiaro e lampante – anche agli occhi dei più dubbiosi – è quello che vede come vincente oltre che strategica l’alleanza di matrice progressista tra il Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte e il Partito Democratico. Il risultato era previsto da tutti i pronostici e si è confermato oltre le più rosee aspettative proprio nelle città cardine di questa alleanza, come Napoli e Bologna.
La percentuale della coalizione viaggia attorno al 60% per entrambi i candidati, Gaetano Manfredi e Matteo Lepore, e rappresenta come la convergenza di obiettivi comuni sulla linea programmatica tra il M5S, depurato dalle velleità populiste, e la parte progressista del Pd, libera dall’area riformista rimasta all’interno del partito nel segno di Matteo Renzi, sia in grado di esprimere ottime proposte sulla classe dirigente, al contrario della destra che soprattutto sulla proposta dei candidati sconta gli errori più grandi. Si prefigura, dunque, un’alleanza vincente verso una destra nazionale che, seppur nei sondaggi vanta numeri altissimi, oggi dimostra tutte le sue debolezze e le sue contrarietà, a partire dal fatto che le due principali anime del fronte sovranista in Parlamento siedono su tavoli opposti.
Per quel che riguarda le linee programmatiche, poi, non è secondario il fatto che su alcuni temi – come l’ambiente, il reddito di cittadinanza, la tutela delle fasce più deboli, la politica fiscale, le politiche sull’immigrazione – i 5S oggi condividano posizioni compatibili con il Pd. Per quanto possa sembrare anacronistico, questo passaggio rappresenta il ritrovo dello stesso popolo: quello che 10 anni fa, agli albori del Movimento, decise di abbandonare la sinistra per schierarsi con il M5S che proprio queste istanze portava avanti in maniera più convinta e senza esitazioni.
Il contributo di Conte in questo quadro è stato determinante nello sgombrare il campo da equivoci su quel populismo di matrice sovranista che così abilmente Grillo aveva cavalcato nelle elezioni del 2018, mischiando all’interno della stessa compagine politica contraddizioni enormi e mirando a rappresentare con quel 33% una politica al contempo di sinistra (anche estrema) e di destra radicata. Oggi i militanti dei 5S non sono più definibili con l’appellativo di “grillini” e lo stesso Pd è ormai “de-renzizzato”.
I fautori e sostenitori della linea di collaborazione tra le due forze politiche (quelli del governo giallo-rosso) hanno dovuto fare passi indietro, travolti dalle beghe interne del Pd e dalle divisioni alimentate soprattutto da base riformista. In particolare, dalle dimissioni di Nicola Zingaretti agli attacchi a Goffredo Bettini – abile artefice della linea di collaborazione con Conte – molti mesi sono passati e molte questioni sono cambiate, compreso l’appoggio al governo Draghi che una parte del Pd ha abbracciato a malincuore.
Su questo punto probabilmente ha giocato il ruolo che ha avuto Renzi nell’operazione. Il governo giallo-rosso aveva ottenuto grandi risultati e anche sulla lotta alla pandemia avrebbe proceduto in maniera spedita, solo grazie a un’intesa tra varie forze del Paese, sia politiche sia sociali, e soprattutto un sostegno forte della stampa. Ma il progetto è stato messo in stand-by. Oggi, ci si ritrova con un governo di unità nazionale che sta svolgendo un ottimo lavoro, ma che al contempo sta facendo emergere, soprattutto a destra, divisioni che sembrano incolmabili.
La proposta di Bettini prima e dello stesso Giorgetti poi, che vorrebbe Mario Draghi al Quirinale, forse ora prende più corpo, proprio perché una parte politica progressista, con il voto di questa tornata elettorale, rappresenta un potenziale vincente che può aspirare a governare il paese.
Come ha più volte detto lo stesso Bettini, Draghi al Colle sarebbe un gesto di generosità nei confronti dell’Italia. Un gesto di tutela del Paese per evitare che lo stesso rimanga stritolato nelle contraddizioni tra Fratelli d’Italia e Lega e tra fazioni diverse del Governo.
L’ultima cosa che Draghi potrà permettersi sarà quella di essere il candidato di una parte, sia essa di destra o di sinistra. Il suo stesso profilo ne risentirebbe molto e sarebbe logorato dalla parte rimasta fuori, mettendo in pericolo il grande contributo sulla politica internazionale e su temi così delicati, come la futura politica economica, le politiche ambientali, la gestione dell’immigrazione, che proprio in Draghi vedono un elemento di garanzia per l’Italia.
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