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La guerra punica dentro il Pd: gli orfani di Renzi vogliono riprendersi il partito

Immagine di copertina
Illustrazione di Emanuele Fucecchi

Non addentratevi nell’astrusa vicenda dell’intergruppo del Senato, e nei suoi strascichi venefici, prendendola alla lettera: non ci capireste nulla – giustamente – perché è raccontata in una variante politicista dell’ostrogoto. Incomprensibile alle persone normali. Immaginate però che quella querelle sia diventata il casus belli di una nuova guerra punica che sta divampando dentro il Pd. Una guerra civile per assumere il controllo del principale partito della sinistra italiana, per destituire il suo gruppo dirigente, per cambiare drasticamente la sua linea.

Quella guerra si è virtualmente aperta con l’accoltellamento di Giuseppe Conte, e si chiuderà soltanto – questa è la notizia di oggi – con un congresso, che metta fine ai complotti di Palazzo dando la parola agli iscritti. Ad annunciarlo è un dirigente come Goffredo Bettini. Ovviamente per questi motivi l’esito di questa sfida non riguarda solo il Pd, ma tutto il sistema politico. Riassunta in termini comprensibili, la scaramuccia sull’intergruppo sembra uno scherzo buffo: un esponente della destra interna (il capogruppo Andrea Marcucci) sigla un patto di consultazione parlamentare con M5s e Leu, senza condividere questa scelta, né con il segretario del partito, né con Bettini, il dirigente più influente dopo il segretario.

Quindi, appena si diffonde la notizia – questo è il bello – gli uomini della stessa destra interna di cui fa parte Marcucci (e financo lo stesso Marcucci, con qualche acrobazia lessicale) partono all’attacco del segretario, e del suo dirigente più influente, rimproverandogli, per giunta come se fosse stato un gravissimo errore, la sottoscrizione di quel patto. Stiamo parlando di uomini come il ministro Lorenzo Guerini (che già si distinse con una intervista in cui si smarcava da Conte durante la crisi). Di potenziali candidati alla leadership che scalpitano (come Giorgio Gori o Stefano Bonaccini). Di dirigenti inquieti che vengono dalla sinistra come Matteo Orfini. Di ex renziani in servizio permanente nel PD come Luca Lotti.

Ovvero di quel corpaccione di notabili che ha prodotto il miracolo delle designazioni ministeriali: tre capi corrente (maschi) che si sono fatti nominare da Draghi (e nessuna donna) mentre persino il segretario rinunciava ad indicare qualcuno della sua corrente.

Ovviamente il caso dell’intergruppo, in sé, sembra una questione da manicomio: 1) non c’era nulla di male nel costituire quel collegamento con M5s e Leu, sia chiaro, visto che l’alleanza giallorossa è la linea della segreteria del Pd. 2) Nicola Zingaretti è diventato leader con due milioni di voti degli iscritti delle primarie, mentre i signori delle correnti del Pd – per ora – non hanno altra legittimazione che la loro rendita di posizione, e le corpose affiliazioni nei gruppi parlamentari guadagnate in una platea di “nominati” da Matteo Renzi nel lontano 2018 (le liste dei candidati – non va mai dimenticato – furono compilate, in una sola notte, saltando, per la prima volta, qualsiasi criterio di rappresentanza democratica interna).

3) il colmo dei colmi, per giunta, è fare qualcosa, poi accreditarne la paternità ad altri, e quindi attaccarli per averlo fatto. Ma bisogna andare al cuore del problema: con manovre di piccolo cabotaggio, proclami e veleni, il tentativo è quello di “scalare” il Pd, e di cambiarne la rotta. La nascita del governo di Mario Draghi (e l’inserimento della destra di Matteo Salvini nel governo che ha prodotto) hanno accelerato questo tentativo, che covava sotto la cenere da mesi, potendo una questione identitaria.

Anzi: hanno fatto pensare a chi lo aveva messo in campo (fallendo) di poter avere a disposizione una prova di appello. In primo luogo perché le ultime elezioni regionali in cui si è votato – non andrebbe mai dimenticato neanche questo – i voti di Italia Viva (e dei partiti “alla destra” del Pd) si potevano raccogliere con un cucchiaino da caffè, e contare con un microscopio elettronico.

Non si capisce questa storia se non si parte dal celebre proclama di Matteo Renzi (“Faremo al Pd quello che Macron ha fatto ai socialisti francesi”). E dalla strategia seguita, di conseguenza, da Italia Viva nelle amministrative (correre fuori dalle coalizioni nelle regioni in bilico per far perdere il centrosinistra), naufragata, proprio in quella tornata elettorale in un risultato miserrimo (a casa sua, in Toscana, Renzi non riusciva nemmeno a raggiungere il 5%, e in virtù di quel dato è stato chiaro a chiunque che così non avrebbe superato nessuno sbarramento elettorale).

Su tutti i risultati di quel voto svetta – per dare con un esempio una idea dei rapporti di forza – la performance del povero Ivan Scalfarotto, buttato nella mischia in Puglia con il corredo di un manifesto elettorale dadaista, l’investitura a leader carismatico in grado di “far perdere Michele Emiliano”, e poi approdato (grazie al sostegno di ben tre partiti, renziani, boniniani e calendiani) ad un lillipuziano 1,1%. Viene in mente una celebre battuta di Giancarlo Pajetta ai tempi del cartello di Democrazia Proletaria, nel 1972: “Vi siete messi insieme in tre per comporre un prefisso telefonico”.

Ma se e quando si misurano i consensi reali (e ogni volta che lo si è potuto fare è stato così), questa è la consistenza che ha mostrato di chi combatte contro la linea “giallorossa” del Pd, contro la sua idea di costruire una nuova alternativa partendo dall’alleanza con il M5s, e non dall’aspirazione a mettere insieme un indigesto pasticcio centrista (in cui si vorrebbero inglobare anche schegge di Forza Italia). Ecco dove nascono l’assedio al governo Conte, la scientifica campagna di discredito condotta verso tutti i suoi ministri e le sue scelte, che ora invece, nei casi in cui vengono proseguite dal governo Draghi sono salutate come intuizioni geniali, come capita ad esempio accade per l’idea della scuola a luglio, la campagna vaccinale, o il blocco dei licenziamenti (che fino a ieri era descritto come un provvedimento “venezuelano” e che oggi – pensate – “convince anche Giorgetti”).

Il punto è il tentativo di ribaltare con una manovra di Palazzo quello che non è riuscito sul piano dei consensi. O l’effetto invisibile ma potente del Covid sulla politica: il virus – non ci pensiamo mai – ha cancellato il dibattito pubblico, le assemblee, i luoghi di discussione, esaltando il peso del teatrino virtuale dei media. Nei giorni della direzione del Pd, nell’unico modo (virtuale) in cui si potevano manifestare, centinaia di iscritti commentavano la relazione del segretario in diretta scrivendo: “Difendete il governo”, “difendere Conte”, “mandate a quel paese Renzi”.

Scrive non a caso Goffredo Bettini (e con parole di fuoco) sulla fine del governo Conte: “Al di là dei numeri che improvvisamente sono mancati, quel progetto non era affidabile per diversi soggetti in campo. Per il ‘salotto buono’ della borghesia italiana, che si è comprata giornali e ha preso d’ assalto Confindustria”. Aggiunge, riferendosi allo scenario intenzionale: “Se mi si chiedesse qual è in questo quadro il ruolo del Pd (che per svolgerlo bene deve migliorare), direi: riformare il capitalismo con la buona politica. C’ è una forza immensa del mercato e del turbocapitalismo che si è messa in moto con la globalizzazione. Il problema non è astrattamente fuoriuscirne o tantomeno abbatterla. Il problema – osserva Bettini in un intervento su Il Foglio di oggi – è come renderla più umana, più giusta”.

E quindi aggiunge, tornando al tema dell’identità della sinistra: “La destrutturazione del sistema politico, al contrario, potrà essere solo utile a quella pigrizia di certe classi dirigenti italiane che sono state mere spettatrici di ogni salto in avanti del nostro paese: il Risorgimento. La Liberazione dal nazifascismo. La fondazione della Repubblica. Assenti, perché prive, al contrario della Francia, dell’Inghilterra e della Germania, di una propria storia combattuta e vinta sul campo. Ho visto che queste scelte del Pd – aggiunge sarcasticamente Bettini – stanno facendo gioire Renzi. Dice che si apre per lui una prateria al centro. Sono contento dell’assunzione di questa missione da parte sua”.

Qui – come vedete – si va molto oltre il caso l’intergruppo, di un semplice patto di consultazione parlamentare, di una alleanza di circostanza. Ed è per questo che la scaramuccia di Marcucci va letta insieme a tanti altri segnali: la disperazione di Renzi, che polarizza l’attenzione dei media per due mesi (ma non guadagna un voto). Le barricate contro Conte e l’ipotesi della sua candidatura in un collegio della Toscana (erette, per giunta, da una segretaria regionale – guardacaso – anche lei ex renziana). E il tentativo di prendere a pretesto un governo tecnico, per azzerare ogni alleanza e ogni distinzione politica.

È vero il contrario: durante il periodo del governo Draghi – come spiega ancora Bettini – la politica riapre i suoi cantieri in attesa della sfida finale. Il centrodestra, come spesso è accaduto nella sua storia, diversifica la sua offerta, con la polarizzazione tra Fratelli d’Italia (all’opposizione) e Forza Italia-Lega (al governo). È una battaglia di sopravvivenza darwiniana per la leadership. Ma c’è da scommettere che quando sarà finita, il vincitore (chiunque sia) si prenderà in mano, come è sempre accaduto, tutta la coalizione.

Il Pd può scegliere solo fra due strade: l’insalatone neo-centrista e macroniano (che non piace agli iscritti che hanno scelto Zingaretti e che elettoralmente nascerebbe già morta) e una colazione progressista da incardinare intorno all’alleanza giallorossa. Secondo voi il popolo della sinistra, quando sarà chiamato a votare, avrà il minimo dubbio tra la prima e la seconda ipotesi?

Io credo che se (anzi, quando) si farà un congresso i nostalgici renziani, e i gruppi di pressione mediatica che sognano la Restaurazione e il congresso di Vienna, il ritorno a Versailles della corte Leopoldina e dei loro alleati capicorrente, resteranno delusi. Tutti coloro che si commuovono all’idea del principe saudita che ritorna nella stanza dei bottoni come se la disfatta del 2018 non fosse mai accaduta, dovranno rassegnarsi all’idea di essere – tra i loro elettori -impopolari ed elitari.

Leggi anche: 1. Se nel Pd le donne contano davvero, adesso un ministro uomo deve dimettersi e lasciare il posto a una collega / 2. Governo Draghi: ne valeva davvero la pena?

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