Basta con le chimere draghiane e neoliberiste: il Pd deve cambiare il proprio dna se vuole sopravvivere (di R. Parodi)
Tutto come previsto, dunque. La destra-destra stravince le elezioni politiche 2022, Giorgia Meloni con FdI è il premier in pectore della nuova legislatura. Il Pd e il M5S finiscono all’opposizione, vedremo chi terrà loro compagnia. L’analisi del voto è di una semplicità disarmante. FdI è il partito trionfatore e la sua leader la donna-politico che raccoglie l’eredità (avvelenata, altro che il governo dei Migliori!) di Mario Draghi. Finiscono in fumo tutte le ipotizzate alternative di governo, compresa quella – più una speranza che una prospettiva reale – di un nuovo governo di tutti, consolatorio mantra agitato nelle settimane di vigilia da parte di chi non voleva rassegnarsi all’inevitabile.
Gli sconfitti hanno un nome e un cognome. Il Pd di Enrico Letta, la Lega di Matteo Salvini. Letta ha condotto una campagna elettorale disastrosa e guai a chi glielo faceva notare. L’informazione embedded (ovvero tutta con rarissime eccezioni) si è ben guardata dal metterlo in guardia e l’ha accompagnato nel baratro salmodiando vuoti anatemi contro Conte e il fascismo meloniano. Programmi politici? L’agenda Draghi, figurarsi, invisa a due terzi della nazione e soprattutto al potenziale elettorato piddino (operai giovani, disoccupati, donne) finito nelle fauci della romana della Garbatella.
A proposito, tutto politicamente e culturalmente mi divide da Giorgia Meloni e però debbo riconoscerle un fiuto politico e una sagacia tattica di primissima qualità. Non ha sbagliato un colpo in campagna elettorale. Brava a riverginarsi seppellendo eccessi passati (lo sgangherato comizio pro Vox, in Spagna) presentandosi come una alternativa di governo praticabile e chiara. Ha escluso la trappole fascista, è riuscita a non rinnegare sé stessa senza sembrare nostalgica. Chapeu. Ora saranno cavoli tutti suoi, con quel po’ po’ di classe dirigente che si ritrova, tra familismo e scivolamenti autoritari, sarà un’impresa governare un Paese stremato e impaurito. Ma di questo parlerò più avanti nel tempo.
Torno a Letta. L’abbandono pregiudiziale dell’alleanza (ancorché soltanto tecnico-elettorale) con i 5 Stelle ha relegato già ad urne chiuse il Pd al ruolo di partito di opposizione alla destra. Invano Bersani si era sgolato ad indicare la via dell’accordo elettorale con i 5 Stelle, perorato da politici di sinistra come Loredana De Petris, intellettuali (Tomaso Montanari), uomini di spettacolo, giornalisti (pochi…) che alla fine, delusi, avevano annunciato il voto a Conte. L’oltranzismo bigotto e ideologista della classe dirigente del Pd e di molti dei militanti (i più ottusi) ha gonfiato le vele del M5S e sospinto il Pd alla soglia del 19%, peggior risultato della sua storia dopo il 18% e rotti di Renzi nel 2018.
I numeri sono numeri e i sondaggi non lasciavano scampo né margini per una impossibile rimonta. E però consegnarsi a collo nudo alla scure del carnefice è stata un’insensatezza inescusabile. La politica non è algebra, e il buon risultato del Movimento guidato da Giuseppe Conte si deve in parte anche allo smarcamento imposto dal Pd e gradito da una fetta dell’elettorato grillino. Resta la debacle piddina che impone non la solita retorica riflessione semmai un rimescolamento profondo nelle viscere del partito. Più Sinistra! Basta con le chimere draghiane e neoliberiste. Basta con l’appiattimento atlantista. O cambia il proprio dna oppure è meglio se il Pd si scioglie e rimette tutti (dirigenti e militanti) in libera uscita.
La rimonta operata dai 5 Stelle in appena un paio di mesi ha qualcosa di portentoso. A fine luglio i sondaggi lo davano sotto la doppia cifra, ha sfondato il 15% ed è diventato il terzo partito davanti alla Lega, precipitata al 9% (ai bei tempi del Papeete, estate 2019, i sondaggi le accreditavano il 34%). Alla faccia di chi (Renzi, ma anche Letta, sottovoce) aveva già intonato il de profundis per il Movimento. Che sta realizzando il percorso di cambiamento verso una definizione politica netta di partito progressista, liberato dai velleitarismi alla Di Battista e dal doppiogiochismo alla Di Maio, del quale dovremo fare a meno in Parlamento. Che felicità! Se Grillo non se ne inventa qualcuna delle sue Conte piloterà il M5S a diventare la più solida e oltranzista forza di opposizione alla destra di governo. Decida il Pd se vorrà associarsi nell’impresa.
Il Carroccio è imploso, schiacciato dalle carnevalate del suo dilettantesco leader: i rosari, le giaculatorie a Maria Vergine, le figuracce internazionali (il sindaco polacco di destra che gli fece annusare la maglietta pro Putin) e tutto il ciarpame propagandistico che ha accompagnato gli ultimi tre anni del leader. Le memorie bossiane (l’ampolla del dio Po, lo spadone di Alberto da Giussano, i raduni cornuti di Pontida) oggi appaiono innocenti goliardate a petto della vacuità cosmica del Capitano, un tempo sorretto dalla Bestia. Oggi Salvini è già in via di archiviazione da parte dai militanti e dai suoi colonnelli (Zaia, Fedriga, Giorgetti) che si preparano alla successione.
Si apre una nuova fase politica nuova e un’intesa – se non proprio un’alleanza politica organica – fra Pd (o quel che ne resterà dopo il congresso) e i 5 Stelle è un passaggio ineludibile. Mai con questa dirigenza del Pd, aveva messo le mani avanti Conte ben prima dell’apertura delle urne. Ovvio. Se avessero un briciolo di dignità personale, Letta e l’intera classe dirigente che ha condotto il partito al disastro rassegnerebbero le dimissioni, rinuncerebbero a cariche e prebende e si farebbero da parte. Letta tornerà ad insegnare a Parigi. I colonnelli (Franceschini, Guerini, Marcucci, Serracchiani, Malpezzi) naturalmente non ci pensano neppure e già affilano le lame in vista del congresso, convocato, pare, a marzo!
Nell’attesa andrà in onda la nota ordalia interna con il partito spaccato fra chi sosterrà la candidatura alla segreteria di Stefano Bonaccini, il presidente dell’Emilia Romagna amico di Renzi e fervido sostenitore dell’autonomia differenziata, ed Elly Schlein, la pasionaria impegnata nella respirazione bocca a bocca dei rimasugli della sinistra interna al partito. Prevedo pugnali di ghiaccio, imboscate e l’eterna resa dei conti che condurrà, forse, alla scissione di un partito mai veramente nato.
L’inaffondabile Silvio Berlusconi risorge ancora una volta dalle proprie stesse ceneri e si candida a diventare l’ago della bilancia, o almeno il moderatore, all’interno della nascente maggioranza di centro (poco) destra. Ha sfiorato il sorpasso sulla Lega ed è un gran risultato, lo davano spacciato. Aggrappata al Cavaliere, ecco com’è ridotta l’Italia. Il duo Calenda-Renzi (i fratelli de Rege della politica italiana) galleggiano sotto l’8%, Calenda preconizzava un risultato in doppia cifra, addirittura oltre il 12-13%. Si ritrova un gradino al di sotto di Forza Italia. Sarà divertente assistere ai contorsionismi dell’uomo del Parioli (brutalmente trombato nelle urne nella sua Roma) e ai solipsismi di Matteo Renzi, eterno perdente che si immaginava leader del partito della Nazione e finì maciullato dal referendum del 2016. La convivenza dei due galli nel medesimo pollaio si annuncia spettacolare. Mai con la destra, aveva strillato Calenda. Scommettiamo che su quello scoglio si infrangerà il matrimonio di interesse fra Carlo e Matteo?