Lettera a TPI – Il Pd e la necessità di definirsi anticapitalisti
Riceviamo e pubblichiamo di seguito la lettera di Simone Jacca, membro della Segreteria Pd di Bologna.
L’unica speranza cha ha il Partito Democratico, o qualunque partito progressista o di sinistra, di riuscire a sopravvivere a se stesso è quella di trovare il coraggio di definirsi anticapitalisti, rimanendo, ovviamente, liberali.
L’unica via di uscita per una forza che si definisce democratica, ma che da ormai 35 anni non riesce a dare una definizione a questa parola, è quella di ammettere, serenamente e lucidamente, che questo sistema socio-economico è contro qualsiasi principio di socialità, di progresso, di giustizia sociale e di democrazia.
Che si voglia parlare di diritti, di salari, di lavoro, o che ci si voglia spostare su temi ambientalisti, o femministi, o pacifisti il risultato non cambia: qualunque battaglia si voglia portare avanti nei prossimi decenni non può prescindere da questo passaggio, perché il capitalismo, di fatto, per sua natura e sua definizione, divora qualsiasi forma di diritto e sacrifica qualsiasi forma di bisogno in nome del profitto.
Tolti alcuni piccoli traguardi che si possono ottenere sul campo dell’etica civile, e che evidentemente non tangono alcuni interessi, non c’è lotta, non c’è conquista che possa essere portata avanti senza cadere in un’improvvisa e drammatica contraddizione con l’idea economica e politica che c’è dietro questo sistema.
Come si potranno difendere i diritti dei lavoratori se è scientificamente provato che il capitale si muove meglio e con più efficienza quando è slegato da vincoli di alcun tipo? Come si farà a tutelare l’ambiente, a gestire una crisi climatica, sapendo che tutta l’economia capitalistica si basa sulla logica del consumo lineare e perpetuo?
Come si potranno difendere la scuola pubblica o la sanità pubblica dalla concorrenza di giganti privati più ricchi, più efficienti e più remunerativi? Come si riuscirà a costruire la pace se questo intero sistema si basa sulla continua caccia di risorse e materie prime, in qualunque anfratto del Pianeta esse si trovino?
Appare ovvio che sia impossibile, e infatti, nella storia recente, abbiamo dovuto approvare leggi che rendano il lavoro “flessibile”, abbiamo creato la cosiddetta sanità “convenzionata”, abbiamo finanziato la scuola privata, abbiamo fatto continue “missioni di pace” in giro per il mondo, e abbiamo recitato una triste e ridicola commedia ecologica, indignandoci per i disastri che di fatto continuavamo a perpetrare.
E il risultato di tutto questo è quello che già vediamo: perdita di identità, di credibilità, di consenso. Perché l’elettore conservatore preferirà sempre chi questi problemi non se li pone, e quello progressista, radicale, che invece ha a cuore certi temi e certe battaglie, finirà per non credere più a un Partito che evidentemente non è nelle condizioni di portarle avanti.
Non c’è e non ci può essere democrazia nel capitalismo. Non ci può essere giustizia in un sistema che mira allo sfruttamento di qualunque cosa esista: persone, risorse, animali, ecosistemi, mari, fiumi, terre, montagne. Qualunque cosa in questo mondo finirà necessariamente per essere spremuta o distrutta da un sistema che ha come unico scopo quello di arricchire una minuscola percentuale di persone, ma che incredibilmente riesce a farlo convincendo tutte le altre, quelle che soccombono e che si impoveriscono, che è l’unico modo possibile di fare le cose.
Abbiamo reso possibile la distruzione di foreste, oceani, montagne, la desertificazione di interi continenti, l’avvelenamento dell’aria che respiriamo e del cibo che mangiamo, abbiamo portato all’estinzione centinaia di specie animali e vegetali, abbiamo reso questo pianeta inospitale a miliardi di persone, abbiamo fatto guerre, ucciso bambini, diffuso malattie, il tutto per accumulare denaro nelle mani di poche persone e lasciare qualche spicciolo a tutte le altre.
Come si può conciliare tutto questo con i valori e la storia del Partito Democratico? E non si provi a sostenere che il Partito Democratico in realtà ha due anime, e che deve rispettare tanto quella più estrema quanto quella più moderata, perché anche il più moderato dei democristiani di cinquant’anni fa proverebbe sgomento, se non disgusto, verso un sistema socio-economico che è completamente permeato sulla logica dello sfruttamento e sull’accumulo del denaro. E perfino i liberali della prima repubblica, quelli più a destra di tutti (fascisti a parte) sarebbero per lo meno in imbarazzo nel sostenere questo capitalismo.
Qualcuno potrebbe dire che è novecentesco definirsi anti-capitalisti: forse sì, ma solo perché nel Novecento si aveva ancora la forza e il coraggio di parlare di idee e di ideologie e di analizzare qualcosa che andasse oltre la pigra e deprimente discussione politica attuale.
Il fatto che la politica abbia rinunciato a chiedersi quale sia il migliore dei sistemi economici e ancor di più abbia smesso anche solo di pensare se ne possa esistere un altro, è la più grande sconfitta della politica stessa. E genera il risultato più scontato e doloroso: pensare che non ci siano alternative. E invece le alternative le abbiamo! Ne abbiamo addirittura di due tipologie: una semplice, facile, pronta all’uso, una un po’ più complessa e faticosa.
La più semplice è quella di voltarci indietro e recuperare quelle regole essenziali che tutte le economie e tutte le democrazie si erano date in quel luminoso quarto di secolo che seguì il momento più basso della nostra storia, la seconda guerra mondiale.
Venticinque anni di progesso, sociale, economico, umano, in cui riuscirono a fondersi due grandi pensieri, due grandi filosofie. La filosofia liberale, che esaltava l’iniziativa privata, ma come motore di sviluppo e di benessere e non come dominio incontrollato a cui tutto è concesso; che considerava il mercato come opportunità di scambio e contaminazione di culture, e non come dittatura economica; e che vedeva nel profitto un’utiltà individuale all’interno di una più grande funzione sociale, e non un altare a cui sacrificare qualsiasi cosa.
E la filosofia socialista, che metteva al centro l’equità, la giustizia sociale, il benessere delle persone, specie delle più fragili, ma anche la scuola pubblica, la salute pubblica, e soprattutto la democrazia, intesa come quella forza capace di distribuire realmente il potere e le ricchezze di un popolo e non come quello sterile esercizio di infilare una scheda elettorale nell’urna una volta ogni tanto.
Ecco, basterebbe poco per recuperare quello spirito, basterebbe mettersi a studiare le Istituzioni che governarono quei cinque lustri e reintrodurre qualche regola che sia in grado di limitare l’arroganza del capitale e di riequilibrare la bilancia tra ciò che era e deve assolutamente tornare a essere pubblico e ciò che può continuare a essere privato.
Poi ci sarebbe un’altra strada, più avventurosa, più coraggiosa, più insidiosa: immaginare un nuovo sistema, delle nuove regole. Prendere atto che siamo in un altro secolo, con alcune ombre che sono le stesse di allora, ma con altre che sono del tutto nuove e per cui servono nuovi lumi, nuove battaglie, nuove soluzioni. Insomma agitare di nuovo le menti e gli spiriti e ritrovare qualcosa che ad oggi non esiste ma che come nei più grandi momenti di progresso della nostra storia è lì, pronto ad aspettare che qualcuno lo renda possibile.
Questo farebbe un partito vero: proverebbe a costruire una società che rispecchi i suoi valori sociali e morali. Proverebbe a costruire qualcosa che assomigli a una democrazia reale, un luogo dove con i soldi si può comprare un’auto, una villa con piscina, una barca, una lussuosa vacanza, ma non si può decidere le sorti di un Paese, la sua politica estera, la sua economia e il suo stesso futuro. Non so quale sia la strada migliore, la più adatta. Scegliamone una, ma facciamolo in fretta.