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Home » Opinioni

Pd, cambiare nome non risolve ma aiuta (di R. Gianola)

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Il modo in cui un soggetto politico sceglie di chiamarsi rivela la sua identità. E se il Pd continua a perdere voti forse significa che anche la sua ragione sociale va aggiornata. Ma in questa fase i dem sembrano colpiti da afasia

Chi siamo? Dove andiamo? E, poi, come ci chiamiamo? Bisogna cambiare il nome al Pd, si sente dire nel dibattito delle primarie democratiche per la scelta del nuovo segretario. Cambiare nome, aggiornarlo, forse aggiungere la parolina “lavoro” che potrebbe dargli un senso politico e ideale più deciso, magari laburista, qualcosa che richiami i principi della sinistra, una ventata di socialismo addirittura. Calma, ragazzi.

«Non è per il nome che abbiamo perso 7 milioni di voti», dice il candidato Stefano Bonaccini e certo ha qualche ragione.

Si potrebbe obiettare, però, che proprio perché 7 milioni di elettori se ne sono andati allora si può sospettare che la ragione sociale del partito non va più bene e che anche i meccanismi di selezione dei dirigenti e di rappresentanza delle idee e degli interessi degli iscritti e dei simpatizzanti non funzionano.

Questo partito in sedici anni di vita ha macinato nove segretari (di cui due reggenti), ha eletto Matteo Renzi, nell’ultima legislatura è stato al governo con Conte e Draghi pur avendo perso nettamente le elezioni.

La questione del nome non è solo marketing: è pura politica, riguarda l’identità, il Dna del partito, il nome dice quello che sei o vuoi essere.

Finita la stagione dei partiti del Novecento, quando un elettore sapeva cosa rappresentavano Democrazia cristiana, Partito comunista e Partito socialista, la metamorfosi politica e sociale di fine secolo, oltre agli effetti meno poetici di Mani Pulite, ha prodotto alcune creature politiche intrise di una presunta modernità, senza storia, con scarsa cultura, ispirati dalla vocazione a occupare il potere per interessi particolari.

Già agli arbori del «partito nuovo», espressione che era stata di Palmiro Togliatti con ben altri risultati, si discuteva sul nome più adatto: tra le opzioni anche Partito riformista o Partito socialdemocratico. Si cercava una sigla per la casa unitaria del centrosinistra che aveva le radici nell’esperienza di Romano Prodi e dell’Ulivo del 1996. Tutti i progressisti insieme: cattolici, ex comunisti, laici, verdi, dunque democratici.

«Verrebbe finalmente a formarsi», scrisse nel 2003 Michele Salvati, uno dei primi a teorizzare il Pd, «un partito di sinistra moderata, con un nome immediato, fortemente evocativo (basta con la botanica, con le Daisies e gli Olive Trees che ci fanno prendere in giro nelle corrispondenze estere) nel quale la componente di lontana origine comunista non sarebbe dominante».

Una bella idea, ma il nome Partito democratico non convinceva tutti. Era un richiamo un po’ americano, poteva funzionare in Italia un partito che usa le primarie per eleggere il leader?

Bagni di folla ai gazebo e nei circoli, all’inizio. Ma poi le code sono diminuite perché iscritti ed elettori hanno capito di contare poco. E poi non funzionavano le strategie, le scelte politiche, neanche la vocazione maggioritaria tanto decantata da rendersi ridicola in un sistema dove scissionismo e trasformismo sono la consuetudine.

Le primarie, “aperte” a tutti, sono diventate il segno di un partito che ha perso l’orientamento.

Ha scritto il politologo Antonio Florida: «Questo modo di concepire l’elezione diretta del segretario del partito ha svilito negli anni il ruolo della partecipazione degli iscritti (…), è un modello in cui convivono plebiscitarismo e feudalesimo: da un lato, una democrazia della disintermediazione (l’investitura diretta del leader da parte del popolo delle primarie, espressione intrisa di retorica populista); dall’altro, il controllo del partito periferico attraverso correnti puramente funzionali alla competizione interna per le cariche pubbliche. Un modello di partito in franchising».

Per interrompere questa deriva non c’è molto tempo. Il Pd pare colpito da un’afasia che pregiudica ogni idea, litiga se bisogna votare online o no, parlare come al bar e magari farsi capire in fabbrica, negli uffici, nelle scuole.

Intanto il mondo gira, la tecnologia e la scienza imperversano, il lavoro perde valore sociale, economico e culturale. Da McDonald’s l’applicazione dell’Intelligenza Artificiale cuoce gli hamburger e frigge le patatine. Ecco da dove iniziare.

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