Icona app
Leggi TPI direttamente dalla nostra app: facile, veloce e senza pubblicità
Installa
Banner abbonamento
Cerca
Ultimo aggiornamento ore 22:00
Immagine autore
Gambino
Immagine autore
Telese
Immagine autore
Mentana
Immagine autore
Revelli
Immagine autore
Stille
Immagine autore
Urbinati
Immagine autore
Dimassi
Immagine autore
Cavalli
Immagine autore
Antonellis
Immagine autore
Serafini
Immagine autore
Bocca
Immagine autore
Sabelli Fioretti
Immagine autore
Guida Bardi
Home » Opinioni

La parola dell’anno 2024 sia “amore”

Immagine di copertina
Credit: AGF

Viviamo una stagione di odio e depressione. I giovani emigrano, si fanno sempre meno figli, alle elezioni dilaga l’astensionismo. Ecco perché dobbiamo seguire la via indicata da Gino Cecchettin: abbracciare l’umanità e ripudiare la barbarie

«Il vero amore non è né fisico né romantico. Il vero amore è l’accettazione di tutto ciò che è, è stato, sarà e non sarà. Le persone più felici non sono necessariamente coloro che hanno il meglio di tutto, ma coloro che traggono il meglio da ciò che hanno. La vita non è una questione di come sopravvivere alla tempesta, ma di come danzare nella pioggia». 

Sono i versi della poesia di Khalil Gibran, citati da Gino Cecchettin ai funerali della figlia Giulia. Dopo averli ascoltati, ho pensato che il concetto che maggiormente è mancato in questo 2023, e che vorremmo veder trionfare nel 2024, sia proprio quello di amore. L’amore per il prossimo, l’amore per la politica, l’amore per l’uomo o per la donna con cui scegliamo di condividere la nostra esistenza, l’amore per la natura, l’amore per il pianeta, l’amore puro e incondizionato che ha resistito persino alle due guerre mondiali ma oggi sembra scomparso, almeno in Italia. 

Basti pensare che la canzone simbolo dei soldati impegnati sui vari fronti fu “Lilì Marleen”, scritta da Hans Leip, scrittore, poeta e drammaturgo tedesco nonché soldato impegnato nel primo conflitto mondiale, e resa celebre da Lale Andersen durante il secondo. Basti pensare che i figli della generazione che oggi è andata o si avvia alla pensione sono soprannominati “baby boomers”. Basti pensare che la moda giovane è stata il filo conduttore degli anni Sessanta: il decennio dei Beatles, dei Rolling Stones e di ogni genere di rivoluzione. Ora, all’opposto, regna la depressione, come ha sottolineato un recente rapporto del Censis. 

Pubblico e privato
I giovani fuggono dal nostro Paese per rifugiarsi altrove, dove il loro talento e le loro competenze sono adeguatamente valorizzati e retribuiti. Senza dimenticare il crollo delle immatricolazioni all’università, la percentuale ridicola di laureati, la miseria dilagante, il precariato divenuto ormai esistenziale, la presenza sempre più frequente di “lavoro” e “povero” nella stessa frase e il progressivo lasciarsi andare di chi non crede più in niente e in nessuno.

Non a caso, sono entrati a far parte del nostro immaginario termini come “Neet”, i giovani che non studiano e non lavorano, e “astensione”, un fenomeno un tempo sconosciuto e oggi egemone quando si parla di politica, al punto che si prospettano molteplici tornate elettorali cui prenderà parte, se va bene, il 50, massimo il 60, per cento degli aventi diritto al voto. E non è un dramma solo italiano; anzi, alle Europee siamo ancora fra coloro che partecipano di più. 

Al che è doveroso domandarsi: può ancora essere considerata una democrazia la nostra? Può essere definito democratico un contesto, e qui si parla dell’Occidente nel suo insieme, in cui la maggior parte delle persone si tengono in disparte perché non si sentono rappresentate? È una democrazia matura quella in cui, con ogni probabilità, si fronteggeranno un ottuagenuario e un quasi ottuagenario, proponendo ricette rivelatesi fallimentari già trent’anni fa? 

Qualcuno, legittimamente, si starà domandando: ma cosa c’entra l’amore? Nulla, se si pensa che privato e pubblico non siano correlati. Tutto, se si pensa, al contrario, che l’essere umano, per dirla con Aristotele, sia «un animale politico» e che le due sfere non possano essere scisse.

Ma davvero ci illudiamo che il nostro stare insieme non dipenda anche dall’andamento delle cose intorno a noi? Davvero siamo così miopi da immaginare che la realtà collettiva non influisca su quella di ciascuno di noi e delle nostre famiglie? 

Durante la pandemia, qualcuno si era spinto a ipotizzare che sarebbero nati più bambini. La denatalità, invece, è aumentata. E ci stupiamo? Ma come si può pensare di mettere al mondo un figlio se ci si deve affidare alle riserve e alla benevolenza dei genitori o, peggio ancora, fare la fila alla Caritas perché lo stipendio è fermo e il lavoro non c’è più? Come può fare i conti con la modernità una Nazione che non è in grado di gestire la transizione tecnologica?

Come può pensare di avere un futuro un Paese in cui chiudono le edicole, le librerie, i cinema, i teatri, in cui non esistono più partiti e corpi intermedi e nel quale, se non siamo andati completamente a fondo, è solo per merito del volontariato? 

Curare il malessere
Si è parlato molto di patriarcato, e non c’è dubbio che si tratti di una piaga. Fatto sta che se i delitti sono nettamente diminuiti rispetto al passato ma abbiamo la percezione di vivere in una sorta di Gomorra, è perché l’incertezza ci divora. E se ciò accade è anche perché mancano i luoghi d’incontro, gli spazi pubblici e le sedi opportune, indispensabili affinché una collettività si consideri tale.

La violenza e la ferocia connaturate alla sfera maschile possono spiegare l’atto estremo ma non esauriscono il discorso. Le ragioni del malessere vanno ricercate nella mancanza di percorsi condivisi, di rapporti profondi, di quella condivisione esistenziale che fa la differenza fra un’unione positiva e un inferno. 

Anche l’onnipresenza dei cellulari e dei tablet è dovuta alla solitudine: non sappiamo più stare in compagnia, abbiamo paura dell’altro e ci rifugiamo in una realtà virtuale, a tratti addirittura artificiale. È inutile toglierli ai ragazzi mentre sono a scuola o vietarli sui luoghi di lavoro se non si ricostruisce un’idea di comunità. 

E qui si torna all’amore: una parola che non usiamo più, che ci rifiutiamo di scrivere e di pronunciare, il cui utilizzo ci appare quasi un segno di debolezza. Senza, nulla è possibile, ma non lo capiamo più. Siamo talmente assuefatti all’odio da finire col ritenerlo normale.

Odiamo chiunque: dai migranti ai nemici immaginari, costruiti da una propaganda disumana. Odiamo persino noi stessi, perché la verità è che stiamo male. Odiamo la diversità e non ce ne rendiamo neanche conto. Odiamo perché siamo fragili, disabituati al confronto, sopraffatti dalle “passioni tristi”, privi di una visione e di qualsivoglia punto di riferimento. 

L’impressione è che il senso di quest’articolo sarà più comprensibile nel corso dell’anno che sta per iniziare, quando vedremo all’opera il populismo. Certi demoni, infatti, finché non te li trovi davanti agli occhi, pensi che siano lontani, che non ti riguardino, quando in realtà tutto ci riguarda. I predicatori d’odio prevalgono perché la globalizzazione ha devastato le nostre sicurezze, certo, ma anche perché nessuno si è posto davvero il problema di contrastarli. 

Poi è arrivato un uomo, stravolto dal dolore, che con tono pacato e gentile ci ha chiesto unicamente di dire «Ti amo» alla persona che ci sta a fianco, e improvvisamente le nostre polemiche sono sembrate ancora più insulse, ancora più miserabili, ancora più fuori luogo.

Gino ci ha indicato la rotta: per questo è stato attaccato e ancor più lo sarà nei prossimi mesi. Senza esporsi politicamente, difatti, ci ha consigliato di abbracciare l’umanità e ripudiare la barbarie. È l’unica speranza che abbiamo, se non vogliamo che fra trecentosessantasei giorni dell’Occidente, almeno per come l’abbiamo conosciuto, non siano rimaste nemmeno le macerie.

Ti potrebbe interessare
Opinioni / Metamorfosi di atteggiamenti e posture politiche: la “nostra” destra non si smentisce mai
Opinioni / Come il “campo largo” ha strappato l’Umbria al centrodestra
Opinioni / L’alternativa all’oligarchia illiberale non è la paura ma la speranza
Ti potrebbe interessare
Opinioni / Metamorfosi di atteggiamenti e posture politiche: la “nostra” destra non si smentisce mai
Opinioni / Come il “campo largo” ha strappato l’Umbria al centrodestra
Opinioni / L’alternativa all’oligarchia illiberale non è la paura ma la speranza
Opinioni / Astensionismo record anche in Umbria ed Emilia-Romagna: così la democrazia diventa oligarchia
Esteri / Il trumpismo è un filo rosso che unisce “bifolchi” e miliardari
Esteri / Nemmeno a Trump conviene opporsi alla green economy
Opinioni / L'Europa ai tempi di Trump
Opinioni / Ma nella patria del bipartitismo non c’è spazio per i terzi incomodi (di S. Mentana)
Esteri / In Europa può rinascere dal basso un nuovo umanesimo contro la barbarie delle élites (di E. Basile)
Opinioni / Bruno Bottai: l'eloquenza del silenzio (di S. Gambino)