Una nuova visione del mondo: per salvare il Pianeta dobbiamo cambiare il modello sociale ed economico (di G. Gambino)
Quando si parla di clima lo si fa sempre in termini catastrofici, legati cioè all’emergenza della crisi che si rivela sotto i nostri occhi. Un giorno è lo scioglimento dei ghiacciai come avvenuto di recente in Marmolada, un altro la siccità del Po, un altro ancora l’innalzamento delle temperature nelle nostre città.
Oggi è necessario ribaltare completamente questo approccio. Non più le prime pagine sulle crisi climatiche solo quando esse si verificano ma istruire l’opinione pubblica sulle cause di questi fenomeni e fornire strumenti affinché si renda possibile, per tutti, invertire la rotta che il Pianeta ha intrapreso. Evitando, magari, di addossare il peso di questa battaglia epocale per il nostro comune futuro ai singoli o, peggio, alle generazioni come quella a cui noi apparteniamo, nemmeno fosse il supplizio a cui dobbiamo andare incontro da soli (senza contare già tutti i diritti che ci sono stati negati).
Pensateci: i media hanno raccontato guerre, pandemie, crisi alimentari. Tutto. Ma non l’ambiente. Quello non lo abbiamo affrontato mai per davvero. A cosa è dovuta una simile resistenza «in questa nostra epoca, così fiera della propria consapevolezza», tale da poter essere «definita l’epoca della Grande Cecità»?
Tanto per cominciare sarebbe tremendamente utile, e persino universalmente istruttivo, rimuovere dall’immaginario collettivo l’idea che per salvare il clima basti (solo) riciclare la plastica o evitare di tenere aperti troppo a lungo i rubinetti dell’acqua nelle nostre case.
Beninteso: la raccolta differenziata e una gestione intelligente delle risorse idriche giocano un ruolo centrale nel processo del riscaldamento globale. Ma non sono tutto.
La giustizia ambientale passa innanzitutto dalla giustizia sociale. Se sfugge questo concetto, forse banale ma al tempo stesso fondamentale, non è possibile compiere alcun passo verso la transizione ecologica.
Di cui la politica tutta si riempie la bocca senza poi muovere un dito proprio perché incapace di comprendere l’equazione di cui sopra e quindi di proporre una visione radicale e alternativa al nostro stile di vita.
Di cosa stiamo parlando? Del fatto che la nostra società, e il modello sociale ed economico su cui essa si fonda, sono al collasso. La natura ce lo ricorda ogni giorno. Ma noi, da troppo tempo ormai, abbiamo deciso di non ascoltarla, di ignorarla.
Il cambiamento climatico è in atto perché questo nostro modello non è più sostenibile. Se non lo ripensiamo in modo drastico, e al più presto, imploderemo.
In primo luogo lavoriamo troppo, guadagniamo sempre meno, abbiamo poco tempo libero per noi stessi e per i nostri cari.
È vero, da oltre mezzo secolo viviamo in pace e nella prosperità; mai come oggi intere fasce della popolazione mondiale sono uscite dalla povertà più estrema grazie alla globalizzazione; siamo circondati da agi d’ogni tipo e abbiamo davanti a noi un’infinità di scelte e opportunità.
Eppure le disuguaglianze sono cresciute a dismisura. Il sistema capitalistico neoliberista ha trasformato la produttività e il successo in un culto da raggiungere costi quel che costi. Rendendo tuttavia inaccessibili, per la nostra generazione, diritti fondamentali un tempo garantiti. Il diritto al lavoro, l’uguaglianza e la pari dignità sociale tra fasce d’età e classi sociali, l’istruzione e la ricerca, il diritto inalienabile della prima casa, dell’acqua pubblica, del tempo libero per l’ozio creativo. In breve: la stabilità sociale. O, se preferite, mettere in condizione gli esseri umani di essere umani.
Se pensate che questo discorso sulla giustizia sociale non c’entri con la giustizia ambientale vi sbagliate: perché è cambiando l’intero modello sociale ed economico che inizieremo a salvare noi stessi e anche il Pianeta.
Per ottenere una giustizia sociale degna di questo nome servirebbe mettere in discussione in primo luogo il lavoro: riducendo cioè, in primis, l’orario d’impiego e introducendo la settimana lavorativa breve da quattro giorni (che secondo molti studi è persino più produttiva). Legalizzando, poi, un salario minimo che per ogni genere di impiego non sia mai inferiore alla cifra di 10 euro l’ora.
Le grandi dimissioni, a cui abbiamo assistito in parte anche in Italia, sono la reazione a un sistema insostenibile per qualsiasi impiegato: è meglio vivere con 1.200 euro al mese annullando se stessi sul posto di lavoro svolgendo mansioni noiose e ripetitive, talvolta inutili, per 5-6 giorni ogni settimana senza un briciolo di tempo libero oppure guadagnarne meno ma restando vivi dentro?
Ma tutto questo non basta. Non è sufficiente recuperare “solo” i diritti fondamentali; è anche necessario innovare adeguandosi alla contemporaneità. Serve incentivare il lavoro da remoto, limitare l’utilizzo dell’auto, optare per il treno al posto dell’aereo quando ciò è possibile, ridurre il consumo di carne, invitare tutti a fare la spesa acquistando prodotti sfusi riutilizzando perlopiù i propri utensili per rifornirsi, limitare la plastica al minimo e, sì, fare la raccolta differenziata, non sprecare l’acqua quando ci si fa la doccia, acquistare vestiti di seconda mano e non su portali che incentivano la produzione della fast fashion.
Per fare tutto questo serve lo Stato, non bastano gli individui. Abbiamo bisogno di una visione collettiva che dia la direzione. Indicando la via per i cittadini del mondo.
Il Pianeta oggi è un treno che viaggia a velocità supersonica, senza più il conducente che lo controlli, lanciato in avanti all’impazzata verso una direzione ignota.
Dunque, cosa fare? Lo ha già ricordato di recente Salvatore Cannavò, vicedirettore del Fatto Quotidiano, nell’ambito di un incontro organizzato dai Fridays for Future Italia: è ora di tirare il “freno d’emergenza” per ripensare le nostre città, le nostre vite, la nostra società. Per rivedere le nostre priorità. Bilanciare i bisogni quantitativi e quelli qualitativi. E restituire un briciolo di speranza al Pianeta.