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Non c’è Pace Senza Giustizia celebra i primi 30 anni festeggiando le conquiste e fissando gli obiettivi del futuro

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Il 20 maggio il procuratore della Corte penale internazionale Karim Khan ha inviato la richiesta ai giudici per i primi cinque mandati di arresto, per crimini di guerra e contro l’umanità in merito alla situazione in Palestina: tre per i rappresentanti di Hamas, per atti commessi almeno dal 7 ottobre 2023, due per rappresentanti dello Stato di Israele per atti commessi almeno dall’8 ottobre 2023.

“Confidiamo che l’Ufficio del Procuratore mantenga il proprio impegno nel proseguire le indagini indipendenti sui crimini sotto la sua giurisdizione commessi a partire dal primo deferimento avvenuto il 13 giugno 2014” ha dichiarato la presidente di Non c’è pace senza giustizia “È preoccupante che l’apparente inazione della Cpi possa aver contribuito alle dinamiche politiche di impunità, soffocando le voci a favore della giustizia e della responsabilità sia nella società israeliana che in quella palestinese”.

La richiesta dei mandati d’arresto è arrivata a due giorni dai festeggiamenti per i 30 anni di Non c’è pace senza giustizia – o No Peace Without Justice come siamo conosciuti nel mondo – che abbiamo tenuto al Campidoglio il 18 maggio scorso. Nella primavera del 1994 una campagna del Partito Radicale, che Marco Pannella ricordava come necessaria per creare il “primo segmento di una giurisdizione internazionale” e che aveva accompagnato con marce, scioperi della fame e attività istituzionali la creazione dei due tribunali ad hoc per l’ex Jugoslavia e il Ruanda, diventava una organizzazione autonoma co-fondata dal leader radicale ed Emma Bonino. Voglio ricordare Marino Busdachin, il primo segretario scomparso l’anno scorso e il senatore Sergio Stanzani che l’ha presieduta per anni.

A Roma ci hanno raggiunto oltre 100 persone e una quarantina hanno preso la parola, tra quesi leader indigeno dell’Amazzonia Chief Raoni, la ex-presidente della Corte Penale Internazionale Silvia Fernandez de Gurmendi, gli ex giudici Mauro Politi e Flavia Lattanzi, l’attuale vice-presidente e giudice italiano Rosario Aitala, e la vice Procuratore Nazhat Khan,  gli special rapporteur dell’Onu Francesca Albanese (Palestina) e Richard Bennett (Afghanistan); il vice ministro della giustizia della Sierra Leone Alpha Sesay e Hatice Cengiz, vedova del giornalista saudita Jamal Khashoggi brutalmente assassinato nel consolato del suo paese a Istanbul nel 2018. Oltre che decine di persone da sempre mobilitate per il rispetto dei diritti umani come Bonino stessa, la senegalese Khady Koita, Barbara Ibrahim, l’afgano Nader Nadery, il libico Nasser Algheitta, l’ugandese Victor Ochen e i professori David Donat-Cattin e Salvatore Zappalà

Il culmine dell’efficacia dell’azione di Non c’è pace senza giustizia, unanimemente riconosciuto da chi era a Roma il 18 maggio, si è avuto quando alla Conferenza diplomatica sullo Stato in quanto Commissarie europea quando, tra le altre cose, fornimmo una 40ina di esperti a 10 delegazioni di paesi in via di sviluppo per seguire i negoziati. Quella sinergia tra ONG istituzioni e politica fu fondamentale per conquistare il miglior statuto possibile in quella congiuntura politica. Di lì a pochi mesi infatti sarebbero arrivati George Bush a sconfessare la non belligeranza negoziale di Bill Clinton, Vladimir Putin e l’11 di settembre del 2001.

Anche se la cosiddetta “terza via” non si affermò mai, l’aver avuto a che fare con un’Europa governata da governo di centro-sinistra ha consentito l’adozione dello Statuto nel ‘98 e la sua entrata in vigore nel 2002. Negli ultimi 22 anni la Corte ha lanciato moltissime indagini in quasi tutto il mondo, aperto decine di procedimenti, chiudendone meno della metà, incriminato molti leader nazionali o rivoltosi di crimini di guerra, genocidio e crimini contro l’umanità, spiccando mandati di cattura per tre capi di stato: al Bashir, Gheddafi e Putin.

Oltre al sostegno alla Corte nel 2002 abbiamo concorso dell’incriminazione di Milosevic, alla creazione della Corte speciale per la Sierra Leone, favorito la ratifica del protocollo di Maputo contro le mutilazioni genitali femminili, denunciato la riduzione in schiavità di migliaia di persone in Mauritania, le esecuzioni extragiudiziarie nelle Filippine, mappato conflitti in Kosovo e Siria oltre che aiutato il lavoro di decine di difensori dei diritti umani e della democrazia in regimi autoritari. Ma i problemi sono anche in “casa nostra”

E un esempio dell’illegalità dell’amministrazione della giustizia europea è il mio arresto in Belgio a dicembre 2022 nel quadro del cosiddetto Qatargate e successiva detenzione per quasi due mesi – conclusasi con una liberazione senza condizioni da parte dello stesso giudice – per denunciare quel che non va nel momento delle indagini, degli interrogatori, del diritto alla difesa e delle condizioni detentive.

Non approfondisco perché l’inchiesta, anche se sotto inchiesta, è in corso; ma non è un segreto che la Corte europea dei diritti umani sia invasa da denunce sull’irragionevole durata dei procedimenti penali o le condizioni inumane e degradanti delle carceri anche di Stati UE. Si dedicano tempo, risorse e convegni al mandato di cattura europeo e alla cooperazione giudiziaria ma non si rispettano gli obblighi internazionali. Certo EuroJust da subito è andata in Ucraina, e speriamo che presto se ne possa apprezzare il lavoro, ma se dovessimo fare un esame di teoria e pratica dei diritti umani in Europa il quadro europeo non ne uscirebbe pulito. E non ci sono attenuanti. Non sono crimini come quelli di competenza della Corte ma l’irragionevole durata dei procedimenti e trattamenti inumani e degradanti restano gravissime violazioni dei diritti umani.

Le parole del Procuratore Khan dei giorni scorsi ci ricordano che la legge si applica equamente a tutti. Ricordiamoci che l’indipendenza e l’imparzialità non sono la stessa cosa dell’equidistanza. Indagare su “tutte le parti” non significa che un numero uguale di individui in ciascuna parte del conflitto debba essere ritenuto responsabile delle sofferenze umane inflitte ai civili. Coloro che hanno commesso atrocità devono essere chiamati a rispondere indipendentemente da quale “lato” del conflitto dichiarano di essere fedeli. La responsabilità penale, anche a livello internazionale, è individuale, i popoli sono, eventualmente, vittime e non colpevoli perché della stessa nazionalità degli indagati.

Negli ultimi tempi abbiamo avviato un lavoro diverso da quello che solitamente portiamo avanti, ci siamo infatti dedicati ai diritti e alle prerogative indigene dei popoli ancestrali dell’Amazzonia. Con noi a Roma c’era anche Raoni Metuktire (classe 1932), noto anche come Chief Raoni, un leader ambientalista brasiliano capo del popolo indigeno Kayapo originario delle pianure del Mato Grosso e del Pará a sud del Rio delle Amazzoni. Raoni, noto a livello internazionale come simbolo vivente della lotta per la preservazione della foresta amazzonica e della cultura indigena, ci ha ricordato che ogni giorno subiscono, subiamo, l’amputazione della più grande riserva di biodiversità del pianeta.

Che si tratti di approfondire la possibile configurazione del reato di ecocidio, anche se il mondo non potrà esser salvato dal diritto penale, o si tratti di far arrivare le voci dei gruppi indigeni vittime di questi sfruttamenti nei palazzi del potere internazionale, saremo al loro fianco.

Nel festeggiare quanto fatto e conquistato ci è chiaro che altrettanto ci aspetta per i prossimi 30 anni.

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