Non c’è crescita senza nuovi lavoratori: ecco perché c’è bisogno anche di immigrazione
Ormai è inequivocabile: per crescere l’Italia ha anche bisogno dell’immigrazione. Lo dimostra il dato ormai ufficiale relativo ai nuovi rapporti di lavoro attivati nel primo trimestre del 2023. Il 25,8% del totale dei nuovi contratti è stato sottoscritto con stranieri. Il trend non è una novità, è infatti in positivo dal 2014.
Ad incidere sicuramente il calo demografico nel nostro Paese, riconfermato anche quest’anno: Istat riporta che al 31 dicembre del 2022 vi è stato un calo di circa 179mila residenti rispetto a gennaio. È ormai dal 2007 che il Paese sta affrontando un ricambio negativo che, inevitabilmente, porterà ad una riduzione della popolazione, e quindi dei lavoratori.
Come potrà impattare tutto questo sulla crescita? Siamo in un terreno di stime incerte, tuttavia quello che è sicuro è che se un quarto dei nuovi contratti è con lavoratori che provengono da paesi stranieri, per continuare a produrre valore economico l’Italia ha necessità di nuove persone. Specie per alcune tipologie di professionalità. Le elaborazioni della Fondazione Leone Moressa su dati Inps, fornite a Il Sole 24 Ore, riportano che i nuovi contratti sono per il 46,5% a termine, quindi precari, e solo il 20% a tempo indeterminato.
Il governo, che si sa non essere politicamente orientato favorevolmente nei confronti dell’accoglienza dei migranti, ha comunque dovuto continuare a riconoscere la domanda da parte delle imprese di nuovi lavoratori. Nel cosiddetto decreto “Flussi” si prevede l’ingresso di oltre 450mila lavoratori extra-Ue entro il 2025, con nuove aggiunte relative ad impieghi stagionali nei settori turistico-alberghiero e dell’agricoltura.
Il fenomeno appare semplice dal leggere per quanto non scontato e complesso da gestire: se in Italia ad oggi contiamo oltre 2,3 milioni di occupati stranieri, il 10% del totale degli occupati regolari, e il trend è in crescita, è necessaria una strategia chiara e regolamentata. La crescita è un fatto per nulla scontato nel nostro Paese: nel triennio 2019-2022 si è attestata a meno della metà della media dell’Eurozona: 1% vs 2.4%. Accoglienza, integrazione e formazione laddove necessaria sono fattori imprescindibili se non si vuole tornare in recessione.
Questo non ci esime certo dall’urgenza di mettere in campo misure serie per i giovani, le donne e in favore della natalità. Un passo immediato ed efficace potrebbe essere quello del salario minimo che, secondo Istat, porterebbe subito beneficio al 23,3% degli operai, al 53,4% degli apprendisti, al 28% delle attività artistiche, sportive, di intrattenimento e divertimento, e al 23,2% dei servizi di alloggio e ristorazione.
Insomma, non ci sarà crescita senza nuovi lavoratori, tantomeno senza un lavoro dignitosamente pagato.