Noi non abbiamo paura di dire pace (di G. Gambino)
Nel costruire questo numero, che per oltre venti pagine è dedicato alla risoluzione del conflitto in Ucraina, ci siamo a lungo posti il dubbio se un tema così importante potesse tornare a trovare spazio nella mente umana dopo che, per oltre otto mesi, non si è più potuto parlare apertamente di pace: sui giornali, nelle tv, in radio, eccetera. Persino al bar. L’invasione russa in territorio ucraino ha prodotto uno spartiacque senza precedenti. Su tutto. O stai di qua, o stai di là. Una guerra fredda delle notizie e delle opinioni. Esasperando la polarizzazione, triste e semplificata, a danno della complessità che dovrebbe invece appartenere al linguaggio giornalistico. Intendiamoci su un punto: non esiste persona che si diverta nel vedere morire civili e militari ucraini, russi o di qualsiasi altra nazione al mondo. Non esiste persona, salvo rare eccezioni, che ammiri Putin, meno che mai per la carneficina che ha compiuto. Non esiste persona che non ritenga illegale e atroce l’ingiustizia dell’offensiva russa.
Ma visto che siamo in guerra, e che nessuno ha chiesto conto al popolo italiano se fosse opportuno o meno parteciparvi, sarebbe quanto meno interessante conoscere gli obiettivi di questo conflitto. Siamo entrati in guerra per difendere la democrazia (più che imperfetta) di un Paese che otto mesi fa conoscevamo appena? Siamo entrati in guerra per conservare l’attuale ordine mondiale? Oppure siamo entrati in guerra per difendere il diritto internazionale dalle mire espansionistiche di un nuovo Hitler? Non conosciamo, ufficialmente, le risposte a queste domande. Né conosciamo i limiti che abbiamo fissato per la nostra partecipazione indiretta al conflitto. Ma sappiamo che chi ha voluto che sin da principio non si parlasse di pace ha fatto un torto, e senz’altro non ha rispettato, chi in cuor suo ha sempre detestato ogni forma di violenza. Il peccato più grande per costoro, tuttavia, non è stato prendere parte più o meno consapevolmente a questo giochino. Ma far credere, a chi da sempre predilige lo sforzo diplomatico al posto della violenza, di essere fuori luogo, incapace di comprendere il raptus “necessario” del riarmo folle. Ciò che è più triste è che questo accade quando il pensiero umano è pervaso da una tesi precostituita, amplificata dal pensiero buono di chi crede che sia sufficiente schierarsi contro un sanguinario dittatore per ripulirsi la coscienza e “stare dalla parte giusta”. In nome di una presunta moralità che permette all’Occidente, cioè agli Stati Uniti, di fare tutto ciò che vuole. Da circa un secolo.
Quando capiranno che è esattamente questo sistema che tuteliamo per interposta nazione che ci rende deboli, fragili, instabili, persino invisi agli altri della terra, allora forse potremo liberarci da questo dominio culturale e ideologico. Che produce per lo più danni. E non perché in assoluto sia sbagliato inviare bombe e carri armati, difendersi dall’aggressione ingiustificata di un esercito nemico o armare la resistenza, ma perché quanto e come farlo non lo decidiamo (quasi mai) noi europei. Che infatti non abbiamo voce in capitolo su una possibile tregua nel conflitto ucraino. Il ministro dell’Economia francese di recente ha parlato pubblicamente di un indebolimento dell’Europa a fronte di un rafforzamento Usa quasi a senso unico, senza contare il costo del gas liquefatto che gli americani ci vendono ad almeno quattro volte tanto il prezzo che applicano in casa loro. Una cosa è certa: non sappiamo quanto ancora durerà il conflitto in Ucraina, ma sappiamo che dopo questa guerra gli Stati Uniti non potranno più dettare le regole del gioco.