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Home » Opinioni

I Mondiali in Qatar: Messi nei panni dell’altro

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È chiaro che per il Qatar i mondiali sono stati un’occasione di messa in scena della loro visione del mondo; come pure va detto che questo usare le cerimonie collettive come mezzo di propaganda politica non è una novità, da tempo immemore, da tutte le parti. Certo, il Qatar è improntato a un tradizionalismo religioso che sostiene una società stratificata in una distanza siderale tra primi e ultimi; in un dislivello talmente ampio da far sembrare anche l’Occidente – che comunque mantiene bene la distanza tra ricchi e poveri pur ammantandola nel balsamo della democrazia – più egualitario di quello che è.

Poi, alla fine di questa kermesse tutti abbiamo ammirato l’emiro del Qatar Tamim bin Hamad Al Thani ridersela sotto i baffi, pago di esercitare il potere effimero ma assoluto di bardare l’eroe calcistico argentino Leo Messi con la bisht; la veste tradizionale simbolo dell’identità araba, anzi della sua parte egemonica, impregnata di gerarchia, di fondamentalismo islamista, di Sharia.

Qualcuno dice che è un abito e nulla più (e in fondo si tratta della stessa gente che dice lo stesso del velo islamico), senza capire che quasi mai un abito si ferma a nulla più di un oggetto; che l’abito rimanda all’abitudine, l’abitare, l’habitat; che una veste oltre ad essere un oggetto è un significante che veicola un piano simbolico che più che un “nulla più” rimanda a un “tutto e ancora di più” assolutamente culturale.

Messi, che sarà stato a pensare a tutt’altro, nell’accettare questo improvviso e furbo rituale di vestizione, è finito su un piano di ambivalenza tra la cortesia banale dell’apertura ai costumi altrui e la dhimmitudine inconsapevole e volontaria di farsi colonizzare simbolicamente in una cerimonia estemporanea ma estremamente plateale di sottomissione.

Se non altro questo in quanto l’apertura ai costumi di altri che non si aprono ai costumi altrui – e pochi sono chiusi ai costumi altrui come lo sono i regnanti arabi – è un gesto del tutto unidirezionale, senza la reciprocità dello scambiarsi gli abiti “in cui tu vesti me e io vesto te”. Poi, non aiuta certe battaglie l’atto globalmente pubblico del finire sotto vesti così imparentate al velo per cui oggi le donne vengono uccise in Iran dal momento in cui protestano contro l’obbligo di indossarlo (le donne in Iran protestano contro l’obbligo-del-velo, non contro il velo; si battono contro la legge, non contro la religione, è bene ricordarlo).

Però in fondo, allargando un po’ la prospettiva possiamo notare che d’altra parte il Qatar ha accettato sul suo territorio lo spettacolo in mondovisione dato dal reiterato comportamento del tutto haram (vietato per la legge della Sharia) dell’assai svelata e prosperosa miss croata Ivana Knoll, che ha vestito con la sua corporeità prorompente e la sua dozzinale sensualità lo spazio ecumenicamente pubblico del mondiale.

Forse lo hanno fatto affinché qualcuno possa chiedersi se in fondo è questo ciò a cui si riduce la nostra libertà? Non lo so. Sarà che ancora non si capisce bene se questa mercificazione dei corpi svelati è del tutto volontaria, o se in fondo è un velo inverso a cui ci indottrina una religione dei consumi abbastanza obbligatoria anch’essa.

Non so se è solo questo, ma sul versante opposto delle nostre parti, il gestaccio volgare, puerilmente androcentrico e fallocratico del portiere dell’Argentina Emiliano Martinez, ci ricorda più chiaramente un fatto: le libertà individuali occidentali – consentite in gran parte proprio dalla “messa a morte di Dio” e la conseguente acquisizione di centralità del soggetto – sono perennemente esposte al rischio di degenerare in un’occasione per un altro colonialismo, quello dell’idiozia dal basso, nelle molteplici forme che essa oggi assume nella società dello spettacolo impastata con il lievito dell’economia di mercato.

Comunque, andando oltre i connotati culturali di questa vicenda calcistica, oggi le proteste in Iran cercano ancora una volta di farci sapere che mondo del fondamentalismo islamista è una voragine di orrori, soprattutto per gran parte dei musulmani stessi; e le donne e gli uomini che si sacrificano per cambiare il regime chiedono al mondo di accorgersi delle loro gesta realmente eroiche.

E qui dovremmo capire che questo non significa sentirci del tutto migliori o perfetti per prepararci di nuovo ad esportare democrazie e libertà; se non altro perché, anche a forza di esportazioni poco richieste, ci distraiamo dal renderci conto che certe libertà democratiche dalle nostre parti le stiamo facendo marcire in un narcisismo individualista di sempre più infima caratura.

Forse dovremmo capire che agli occhi del mondo non occidentale la miss croata e il portiere argentino ci rappresentano non meno di quanto per noi la bisht rappresenta il Qatar. E non è una bella cosa. Forse ci potrebbe far bene scambiarci gli abiti reciprocamente; per accorgerci tanto delle gabbie di certe sottomissioni religiose quanto di quelle di certe libertà neoliberiste (che poi sono sotterraneamente collegate al mondo arabo dal micelio del capitalismo). E non si tratta di cedere alla tentazione indeterminista del relativismo assoluto che mette tutto sullo stesso piano, per cavarcela con un pareggio morale che lascerebbe tutto invariato: si tratta di farci aiutare dall’altro per comprendere i meglio nostri difetti, a condizione che l’altro si faccia aiutare da noi per comprendere meglio i difetti suoi, reciprocamente.

Sembreranno banalità ma è che a questa reciprocità siamo poco abituati soprattutto perché da queste parti siamo sempre più polarizzati tra chi pensa che ancora dobbiamo infilare i nostri panni agli altri in nome di qualche principio di superiorità e chi pensa che non abbiamo nient’altro da fare che spogliarci e accogliere i panni altrui per espiare peccati di pessima umanità che pare debbano essere ascritti solo all’Occidente.

Tutto ciò anche perché, intorno alla vicenda di questi mondiali di calcio, lo scandalo del qatargate appena emerso ci suggerisce, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che la rappresentazione mono-imperialistica dell’Occidente che, unico, colonizza i suoi altrove si rivela come una nostalgia di modernità perduta: il presente postmoderno che viviamo è attraversato da intenzioni imperialistiche plurali dove, sempre più, anche gli altri, a torto o a ragione, tessono le loro trame di potere su di noi e sul mondo. In fondo, in un modo o nell’altro, sono in molti a cercare di far indossare al prossimo i loro abiti culturali.

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