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Il miracolo di Draghi? Essere riuscito a far resuscitare Berlusconi

Immagine di copertina
FOTO: Stefano Rellandini - REUTERS

L’autocandidatura del premier al Quirinale ha regalato una vetrina insperata al leader di Forza Italia. Così l’emblema dell’immoralità e del malcostume è tornato centrale. L'analisi di Marco Revelli sul Quirinale nel nuovo numero del settimanale di TPI, The Post Internazionale, in edicola da venerdì 21 gennaio

Berlusconi e Draghi – Silvio e Mario nel chiacchiericcio mediatico – sono in ampia misura il simbolo della crisi italiana. Del suo incancrenirsi, in un intreccio di gravità e di fatuità. Di destino tragico e di costume cortigiano, se è vero che ad oggi sono gli unici candidati espliciti alla massima carica dello Stato.

Strana coppia, potremmo dire, apparentemente, nella rappresentazione comune, costituita da poli antitetici: da una parte un condensato di vizi privati che si fanno malcostume pubblico, dall’altra parte una vetrina di pubbliche virtù, le uniche riconosciute dal mercato perché orientate alle private utilità. In realtà molto più implicate l’una con l’altra, e non solo perché finora Berlusconi e Draghi sono i soli ad essersi auto-candidati: l’uno aprendo il proprio banchetto dei pegni al mercato delle vacche parlamentare, l’altro con quella maldestra conferenza stampa d’antivigilia di Natale che in realtà gli ha fatto più male che bene. Ma anche perché, al di là delle forme – che pur fanno anche in buona parte sostanza -, e della diversa concezione del “comune senso del pudore” che mostrano di possedere, nel fondo, se vogliamo applicare più che una metafisica dei costumi una microfisica dei valori di riferimento, appartengono entrambi al medesimo “universo di senso”. Sono entrambi espressione del “potere del denaro”, l’uno (il tycoon) come suo utilizzatore finale, l’altro (il banchiere) come suo custode e curatore. Entrambi accomunati nella condivisa fede in quello che considerano, ognuno a modo suo, il principale regolatore delle relazioni umane, servendone lealmente il decalogo non scritto che oggi è l’“ordine” del mondo. Sono, potremmo dire, i due emisferi del medesimo mondo.

Potremmo dire anche di più: c’è tra loro un nesso forse non così visibile ad occhio nudo ma, a ben guardare sotto il polverone, tutto sommato forte, che si potrebbe qualificare di ”causa-effetto” o di “consequenzialità” che vede in Berlusconi e nel berlusconismo tutto sommato un prodotto (probabilmente non voluto, ma reale) di Draghi e del draghismo. Una relazione, qualcuno potrebbe obiettare, “contro natura” perché vedrebbe il (più) “vecchio” discendere geneticamente dal (più) “giovane”, in qualche modo il “padre” biologico riconfigurarsi in figlio, ma a ben vedere sostenuta da un buon numero di evidenze fattuali. Non può sfuggire, infatti, che Mario Draghi sia stato, in Italia e non solo, il campione assoluto nel campo delle privatizzazioni: tra il 1991 e il 2001 (il decennio della “irresistibile ascesa” di Silvio Berlusconi) ha promosso e gestito da protagonista una serie di “privatizzazioni selvagge” per un totale di 182.000 miliardi di lire, smantellando l’apparato pubblico (Iri, Telecom, Comit, Credit, Eni, Enel). E aprendo così la strada alle voraci navi corsare del capitale privato, tra cui il padrone di Mediaset e il re delle comunicazioni televisive era l’ammiraglia. Fece scalpore, allora, la notizia dell’incontro avvenuto proprio all’inizio di quel processo di pubblica svendita – nel ’92 -, a bordo del panfilo HMY Britannia della Regina Elisabetta, con alti esponenti del mondo finanziario internazionale, nel corso del quale Draghi – allora “pubblico funzionario” – si dichiarò perfettamente consapevole del fatto che un tale intervento avrebbe «indebolito la capacità del Governo di perseguire alcuni obiettivi non di mercato, come la riduzione della disoccupazione», ma che tuttavia lo riteneva «inevitabile». Fu allora che ebbe inizio l’“era Berlusconi”.

Una condizione necessaria

Questo per la Storia. O per la “pre-istoria”. Ma se spostiamo lo sguardo dal passato remoto a quello prossimo, fino all’attualità, quel nesso non si rescinde. Anzi, si conferma. Possiamo dirlo, dati politologici alla mano, che l’attuale, devastante candidatura del leader di Forza Italia è figlia non solo naturale ma anche legittima del governo presieduto da Mario Draghi. O, se si preferisce, della sua anomala e dissennata maggioranza. Il fatto che sta sconvolgendo la coscienza civile di quella parte di italiani che continua a coltivare un sia pur tenue senso della dignità e rivoltare gli occhi al cielo agli osservatori internazionali, è la prevedibile conseguenza della nascita di quel governo e di quella maggioranza che al tempo in tanti (troppi) considerarono una benedizione del cielo e l’ultimo miracolo di Lourdes.

Nel momento in cui nacque infatti una maggioranza trasversale, dal Pd (anzi, da Leu) alla Lega, che quindi incorporava come proprio “centro” il partito di Silvio, si creavano di fatto le condizioni (ampiamente prevedibili, conoscendo lo spirito predatorio della persona) perché Silvio capitalizzasse su quella posizione. E giocando sui rapporti di assoggettamento nei confronti delle altre due componenti del centro-destra (che non si era affatto sciolto nonostante FdI fosse all’opposizione) puntasse alla posta grossa. Quella in grado di dinamitare lo Stato, in perfetto stile da finale del Caimano. Mentre, sul versante opposto, il vincolo di solidarietà “di Governo” degli altri partiti (a cominciare dal Pd) impedisce loro di denunciare come meriterebbe, cioè come un attentato al senso civile del Paese, quella candidatura, limitandosi a sussurrare sulla sua “divisività”. Si potrebbe dire «Chi è causa del suo mal pianga se stesso», se non fosse che a piangere, ora, siamo un po’ tutti.

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