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Il mercato che non c’è (di G. Gambino)

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Illustrazione di Luca Soncini

L’Italia è il Paese dove tutti vogliono scrivere ma nessuno legge. Ogni anno centinaia di nuovi giovani bussano alle porte delle redazioni di giornali alla ricerca di un posto di lavoro. Solo negli ultimi due anni sono nati in Italia almeno cinque nuovi giornali tra quotidiani e periodici.

A vedere il panorama giornalistico italiano con gli occhi di un estraneo parrebbe di trovarsi di fronte a un mercato florido e in forte espansione. Nei fatti, però, stiamo parlando di un mercato che oggi non esiste più.

Il tema è complesso e le cause molteplici. Tutto si tiene ed è incatenato. Ma in primo luogo il giornalismo oggi soffre del suo più grosso problema: la credibilità. Il costante disinvestimento nei giornali ha fatto sì che la qualità della stampa calasse in parallelo con le vendite. E così accade che l’originalità dei pezzi sia merce sempre più rara, che i refusi abbondino, che quanto scriviamo non sempre sia del tutto corretto, o verificato, facendo venire meno la professionalità del mestiere. Questo fattore, che molto ha a che vedere con il tempo a disposizione (sempre minore) e la necessità di produrre (tanto e peggio anziché meno e meglio) è stato determinante nel minare quel patto non scritto tra lettori e giornali. Così è esplosa la disintermediazione, grazie anche all’uso dei social, divenuti un veicolo alternativo per l’informazione prêt-à-porter, che si spiega al meglio così: il beneficio principale della rete è che chiunque può scrivere qualsiasi cosa ma il problema principale della rete è che chiunque può scrivere qualsiasi cosa.

Il che porta al punto successivo: in nessun altro Paese al mondo questa crisi del sistema informativo è così palese e drammatica come in Italia. È vero: le copie vendute (e la credibilità nel giornalismo) crollano quasi ovunque nel mondo, ma non quanto in Italia. I numeri sono impressionanti, guardate l’infografica alle pagg. 18-19. Anche il digitale – che altrove è già il presente – non ha ancora preso piede nel nostro Paese, in larga parte a causa del fatto che chi possiede i giornali da noi ha interesse a mantenere in piedi l’architrave dell’informazione tradizionale e degli indotti che ne derivano (altra infografica a pag. 27).

Il mercato, questo sconosciuto: sì, perché l’informazione è uno di quei settori che, se non avesse avuto finanziamenti e forme varie di contributi pubblici, sarebbe morto già da un pezzo. Prendete le agenzie di stampa: sono la fonte primaria per eccellenza. È ciò da cui nascono le notizie. Senza entrare nel merito delle proprietà da cui alcune dipendono (Eni, per dirne una), il sistema fa sì che parte dei loro finanziamenti provengano dal Governo, tramite il Dipartimento per l’informazione e l’editoria o da vari ministeri, secondo lotti che dal 2017 sono stati prorogati nonostante fosse previsto che durassero 36 mesi. Difficile perciò, per definizione, che le agenzie possano essere del tutto avulse dal potere esecutivo.

L’altro abbraccio mortale è la commistione tra politica e giornali. Non solo perché molti, fra politici e giornalisti, sono interscambiabili (e difatti vantiamo il record di giornalisti diventati politici o viceversa) ma anche perché questa relazione è sempre più divenuta un punto imprescindibile, quasi fondante, della stampa. Il che aiuta a capire come mai talvolta quest’ultima faccia più da portavoce del potere anziché da contraltare.

Arriviamo così al punto più noto ma mai davvero affrontato. La credibilità del giornalismo negli anni è affondata anche perché mentre buona parte di chi ha scelto questo lavoro lo faceva perseguendo un nobile intento, una più ristretta cerchia di giornalisti ha abbandonato quella mission e si è fatta sedurre e cooptare da chi il loro giornale se lo era comprato. Questi cosiddetti giornalisti di primo rango hanno dismesso i panni dei reporter per indossare quelli di notisti politici e intellettuali. Non più giornalisti ma star. Trasformazione che non è avvenuta sempre in mala fede, semplicemente sono stati assorbiti da questo sistema.

Se ci fosse in Italia un editore puro con l’intento di generare utili tramite l’editoria solo perseguendo l’interesse pubblico oggi saremmo un Paese più sano. E invece i giornali sono finiti perlopiù nelle mani di persone a cui dell’editoria non importa nulla e che usano quotidiani e riviste come strumento per esercitare un’influenza e tenere in piedi interessi divergenti e collaterali all’informazione.

Anche per questo nel tempo la stampa è divenuta cassa di risonanza per la politica e le lobby (in modo così palese forse solo in Italia), sempre nell’interesse privato e mai del lettore, venendo meno alla sua funzione.

Aggiungete a tutto ciò il fatto che – con il crollo della credibilità e delle copie vendute – anche i ricavi dalle pubblicità sono diminuiti (oggi l’advertising è appannaggio delle Big Tech), oppure che chiudono in media due edicole al giorno, e avrete il cocktail terrificante a cui assistiamo.

Il digitale – che non ha colpe ma se mai meriti – poteva essere, come altrove nel mondo, una grande occasione per scrollarci di dosso le ombre del sistema informativo italiano, facendo un grande reset del giornalismo. E invece siamo riusciti a trasformare i nostri siti di news in macchine da guerra sempre più scadenti. Anziché spostare quel poco che rimane dei grossi capitali pubblicitari sul digitale (è ancora concentrato quasi tutto sulla tv e sulla carta), sviluppando una piattaforma informativa a pagamento tecnologicamente sviluppata, abbiamo accettato senza alcuna strategia che l’informazione online fosse gratuita, rendendola indistinguibile e oggi solo relativamente utile.

La combo digitale + carta è la strada che molti hanno già intrapreso nel mondo. Perché la prima è essenziale nella velocità dei tempi, la seconda necessaria per capire. Il presente è fatto di tante e piccole comunità, alla ricerca di un’appartenenza, più che di lettori capaci come un tempo di investire 100 euro al mese per l’informazione. Ed è il motivo per cui i piccoli-giornali-tribù crescono nonostante questo panorama desolante. Piccole oasi nel deserto prosciugato.
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