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M5S: tre consigli a Giuseppe Conte

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Giuseppe Conte, presidente del Movimento 5 Stelle. Credit: AGF

Già che si torni a parlare di appartenenza politica, «né di destra né di sinistra», è un brutto segno; ma se a farlo, in questo giugno post-elettorale, sono proprio gli ex vertici del M5S significa che si è messa definitivamente in moto la macchina dell’auto-sabotaggio che da qualche anno ormai imperversa intorno al movimento.

Dopo il risultato delle europee che ha fatto piombare i Cinque Stelle poco al di sotto del 10 per cento, s’è infatti intensificato il dibattito sulla linea politica del movimento e la tenuta del presidente Conte.

Un po’ per spirito di revanche, un po’ per vera convinzione, da Grillo a Casaleggio passando per Di Battista, la vecchia dirigenza ha criticato aspramente l’attuale leader, eccessivamente accentratore e a loro modo di dire indisponibile a un vero dialogo collettivo, sostenendo così che sia necessario «un ritorno alle origini».

È dunque giusto parlare di crisi? Alcune considerazioni possono giungere in aiuto nel rispondere a questa domanda.

Da che è entrato a competere in politica, il M5S ha fatto quasi sempre male alle elezioni europee, performando ancora peggio quando l’astensionismo sale (cosa che non accade per altri partiti tradizionali), motivo per cui questo recente 10 per cento non è da imputarsi al fallimento di Conte di per sé quanto piuttosto al fisiologico andamento elettorale dei grillini in un voto dove, per giunta, i suoi stessi candidati erano poco noti e dove in particolare la Sicilia ha disertato le urne.

In secondo luogo le critiche che provengono da Grillo («Ha preso più voti Berlusconi da morto che Conte da vivo») stridono con le gaffe politiche che lo stesso garante ha collezionato negli anni («Draghi è il più grillino tra i grillini») e che da sole dovrebbero farlo ricredere sul suo ruolo di vate dei Cinque Stelle, dopo che era stato lui stesso a portare il movimento a fare accordi politici con quasi tutti i partiti, anche con il governo di Mario Draghi appunto, in cambio di un insignificante e ben poco efficace ministero. 

Sul suo ruolo di comico nulla quaestio, su quello politico sarebbe opportuno che Grillo si facesse da parte. A meno che non voglia rendere il M5S, che oggi ha quasi 15 anni di età, la brutta copia di Forza Italia: un movimento incapace di sopravvivere al suo stesso fondatore, a tal punto da dover ricorrere al nome di Berlusconi nel simbolo elettorale anche un anno dopo la sua scomparsa.

Lo ripetiamo da tempo. Grillo è l’uomo sbagliato per il Movimento giusto, Conte l’uomo giusto per il Movimento sbagliato (a meno che non lo ristrutturi da dentro: con lui al centro e gli altri alle frange più estreme).

E chi sono questi altri protagonisti “esterni”? Uno è Alessandro Di Battista. Persona libera e controcorrente, gran coraggio, uomo capace di comunicare e di dialogare con i veri grillini, Di Battista è forse l’unico in grado di risuscitare ciò che fu il M5S. Ma il concetto chiave, qui, è: “quello che fu”; e non quello che dovrà essere.

L’unica pecca, perciò, al solo scopo di aumentare i consensi nell’interesse dei grillini, è non averlo reso ministro in pectore (o vice leader) a capo di un frangia di grillini, i più radicali e i più intransigenti, nell’alveo di un progetto più ampio e riformatore, capace di portare un 5 per cento lui da solo.

Simile discorso si sarebbe dovuto fare per Virginia Raggi, interessante donna al vertice, persona senz’altro libera (anche se non con altrettanto coraggio di quello dimostrato dal suo collega Di Battista): pure all’ex sindaca di Roma sarebbe stato opportuno assegnare un ruolo di traghettatrice in chiave locale. Idem con gli altri amministratori degni di nota con un legame con il territorio, laddove i vertici nazionali faticano a “parlare la stessa lingua del disagio territoriale”.

E già che parliamo di consensi, vale la pena ricordarlo subito: il partito di Conte oggi è una sciocchezza. Avendo preso il controllo del M5S, e con esso le chiavi di casa, non c’è altro da fare che lavorare alla sua struttura. Se alle frange più estreme sarebbe stato più opportuno far disciplinatamente sedere i Raggi e i Di Battista, al centro del movimento dovrebbero rimanere Conte, Appendino e tutti coloro che sostengono il nuovo corso del progetto politico M5S de-grillizzato.

Ma c’è un’altra cosa che Conte dovrebbe migliorare: ascoltando le recenti critiche di Casaleggio junior («Il M5S torni alle sue origini» e via dicendo) va riconosciuto che l’ex premier fa troppo poco per innovare un movimento nato proprio con l’intento di saper attrarre le folle dei non rappresentati e degli esclusi; e quelle, nonostante siano passati 15 anni dai Vaffa-Day, non sono mai tramontate. Anzi, aumentano.

Non tanto la piattaforma Rousseau, ma l’importanza della partecipazione dal basso e i temi di fondo che oggi occupano l’agenda dei parlamenti di mezzo mondo. C’è necessità di più studio, di maggiore confronto, di un gruppo di esperti e intellettuali che – non avendo Conte tempo, per scelta – studino ed elaborino un piano per offrire soluzioni che si occupino delle persone.

L’intelligenza artificiale, la crisi conseguente nel mondo del lavoro, i diritti che ne deriveranno: sono tutti “temi nuovi” che, sebbene sembrino lontani, sono in realtà il terreno di scontro del presente e su cui gli italiani presto chiederanno risposte certe. 

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