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Il M5S è un fantasma che cammina sulle sue gambe

Immagine di copertina
Alessandro Di Battista, Luigi di Maio e Beppe Grillo sul palco del Pantheon a Roma, 25 ottobre 2017. Credit: ANSA

Sono tempi decisamente difficili per il Movimento 5 Stelle. Da una parte la bomba lanciata dal quotidiano spagnolo Abc sul presunto finanziamento di 3,5 milioni di dollari che nel 2010 sarebbe stato versato dal governo venezuelano dell’allora presidente Hugo Chavez (non Augusto Pinochet come potrebbe erroneamente scrivere Luigi Di Maio…) nelle casse della Casaleggio Associati attraverso canali diplomatici. Dall’altra la minaccia di una scissione con la polemica a distanza tra Alessandro Di Battista e il co-fondatore Beppe Grillo. Sullo sfondo l’ombra di Giuseppe Conte, sempre più avulso al partito che lo ha lanciato in mezzo all’arena della politica italiana, un’arena dove ormai si trova a suo agio e in cui sembra in grado di addomesticare anche le “belve” più feroci con il piglio di un promettente dirigente della Democrazia Cristiana degli anni ‘80.

E se fonti diplomatiche della Repubblica bolivariana del Venezuela definiscono “un falso” il documento attribuito ai servizi segreti mostrato da Abc (ma parliamo di un Paese non certo noto per la circolazione trasparente delle informazioni) e Davide Casaleggio annuncia querele, lo scontro politico all’interno del Movimento è tutt’altro che secretato e si sta consumando tra interviste in tv e tweet di replica.

Uno scontro non nuovo, che vede opporsi l’ala più ortodossa che ha come leader carismatico il travel blogger e quella istituzionale – o per meglio dire “istituzionalizzata” – a cui fanno capo, con diversi posizionamenti, un po’ tutti gli altri big compreso l’ex comico-leader, “padre nobile” che ricompare con i suoi messaggi sibillini quando c’è da dettare la linea. Sono quelli che eleggerebbero domani mattina Giuseppe Conte leader del Movimento, un’operazione maquillage che stando a un recente sondaggio Ipsos restituirebbe una discreta fetta di consenso ai grillini (passati dal 32% delle politiche al 17% delle europee) evitando quella che sarebbe una definitiva Caporetto, nell’ipotesi tutt’altro che remota che il premier decidesse di fondare un suo partito.

Che lo spauracchio della democrazia diretta e l’illusione dell’uno vale uno fossero una fake news è cosa nota già da un bel po’. È ormai fatto conclamato che il Movimento 5 Stelle sia una forza politica a gestione piramidale e sulla punta della piramide ci sia una società privata che esercita il suo potere utilizzando una piattaforma web tutt’altro che trasparente. Per questo la richiesta di congresso avanzata in perfetta solitudine da Di Battista fa persino un po’ tenerezza. E una scissione, al momento, appare davvero l’ultima delle ipotesi percorribili da entrambe le “anime”.

Il partito che nel 2013 sparigliò le carte, imponendosi come terzo polo e imponendo all’agenda politica nazionale le sue parole d’ordine “anti-casta”, è ormai l’ombra di se stesso. Anzi, si può tranquillamente dire che non esista più, al di là del simbolo.

Archiviati gli odiati vitalizi, finiti i flash bob per celebrare “restituzioni” di stipendi, portato a casa un sussidio assistenziale che al momento ha prodotto zero occupazione e arrivati in dirittura d’arrivo un simbolico taglio dei parlamentari che produrrà non pochi problemi per assicurare un minimo di rappresentanza parlamentare a vaste aree del Paese, quella rabbia sociale che era la linfa vitale che animò la forza politica figlia dei “vaffa-day” è stata velocemente assorbita dalle destre estreme di Matteo Salvini e Giorgia Meloni, abili a deviare quelle pulsioni sociali su nemici più semplici come i migranti.

L’elettorato residuale del Movimento è ormai un misto di sinistra delusa e irriducibili della prima ora tenuti insieme – almeno per il momento – proprio dalla figura di Giuseppe Conte, il leader che non ti aspetti che nel giro di meno di due anni è passato da figura subalterna a protagonista della scena, con tanto di fenomeni un po’ inquietanti come i fan club a tema tipo “le bimbe di Giuseppe Conte”.

Il premier è stato molto abile a prendersi la scena nei mesi dell’emergenza Covid-19, un dominio mediatico che ha spiazzato alleati e avversari: una scelta che portava in sé un rischio enorme, quasi suicida, ma che guardando tutti i sondaggi sul gradimento dei leader si è rivelata vincente.

L’altra gamba, quell’estrema destra vicina a gruppi neofascisti e a chiassosi personaggi iper schierati come Gianluigi Paragone, è già tornata a casa da tempo. Ci sono poi i sedicenti gilet arancioni del teatrale Generale Antonio Pappalardo che rischiano di portare via ai grillini altri pezzetti di consenso, pezzetti sicuramente più marginali ma ottimi per organizzare carnevalate in piazza come terrapiattisti, no-vax e complottisti di vario credo: da quelli che credono che il mondo sia governato da Soros e dai rettiliani a quelli che credono che ci sia chi controlla il clima irrorando il cielo di scie chimiche.

Una piccola fetta di quello che fu lo tsunami giallo che ha seguito l’ex Sara Cunial – quella che in pieno lockdown se ne andava allegramente al mare – e il pirotecnico consigliere regionale del Lazio Davide Barillari, altro ex cacciato per aver mandato in rete un sito anti-vaccini denominato “Salute Regione Lazio” (con tanto di grafica copiata da quella istituzionale) in piena pandemia.

Il partito della Casaleggio Associati si trova oggi di fronte a un bivio: inginocchiarsi al definitivo ritorno della politica – quella “cosa brutta” fatta anche di equilibri, accordi, mediazioni, nomine e di tutto quello che all’università della strada viene bollato come “sopruso contro il volere del popolo sovrano” – oppure avviare un poco credibile “ritorno alle origini” auspicato dall’isolatissimo “subcomandante Dibba” nelle pause tra un viaggio e l’altro.

Ad oggi, la scelta di puntare su Giuseppe Conte – e quindi al ritorno della “cosa brutta” – appare quella più scontata e, diciamolo, anche più sensata. Una scelta che sarebbe la conferma della rivoluzione post-Papeete Beach, quando per restare al governo si scelse di bere il calice amaro dell’alleanza con i nemici di sempre: con il Pd e (soprattutto) con Renzi. Una scelta che, però, potrebbe essere condizionata dai venti di un’altra rivoluzione, quella di quel Paese del Sud America che da oggi, per il Movimento 5 Stelle, non è più solo il ricordo di una gaffe di Luigi Di Maio.

Leggi anche: 1. Stati generali di Conte? Gli eccessi di un premier che ha deciso di fare tutto da solo (di E. Serafini) / 2. A villa Doria Pamphilj va in scena il reality del potere (di M. Magno)

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