Letta ha chiuso ai 5S perché temeva la figura di Conte (di M. Tarantino)
Una delle prime cose che insegnano al corso di Psicologia di Scienze della Comunicazione è la distinzione tra il linguaggio delle parole e quello non verbale. Il secondo è molto più difficile da mascherare. Saper leggere e interpretare il linguaggio non verbale, quello del corpo, il comportamento prossemico aiuta a capire la realtà delle cose. Nella fine di giugno di quest’anno in Piazza Maggiore a Bologna ci sono stati due dibattiti consecutivi in occasione de “La Repubblica delle idee”. Il primo vedeva Enrico Letta intervistato da un accomodante direttore de La Repubblica, Maurizio Molinari. La gran parte dell’intervista si è sviluppata attorno al tema del campo largo. Letta ha descritto una buona sintonia con il Movimento 5 Stelle e l’importanza del progetto politico di un campo che di lì a poco tempo avrebbe preso corpo per prepararsi alla campagna elettorale in aprile.
Dopo Letta sul palco è stato il turno di Giuseppe Conte. Questa volta il tono dell’intervista è stato altro che accomodante: l’ex premier è stato attaccato – più che intervistato – da Stefano Capellini e i due non si sono risparmiati botta e risposta. Anche a Conte sono state fatte domande sul campo largo. Il leader del M5S è però rimasto sui temi ribadendo l’intenzione di lavorare in questa prospettiva, confermando l’interesse a collaborare con il PD e la sinistra; ha parlato però di campo progressista più che di campo largo.
Il coordinamento dei due dibattiti consecutivi è apparso impeccabile: tutto sembrava incastrarsi in modo che i due non si incrociassero. Anche alla fine del dibattito, tra Conte e Letta non c’è stato alcun saluto, alcuna foto, niente abbracci a favore di fotografi e telecamere.
Entrambi avevano sostenuto l’importanza di lavorare insieme, ma, di fatto, il loro linguaggio prossemico raccontava di due persone che non avevano feeling, nulla da comunicare insieme per raccontarsi al pubblico numeroso, neanche un saluto. Ricordo poi molto bene come all’uscita di Letta dal palco vi fossero una trentina di dirigenti locali del partito con i quali il segretario si è allontanato per molto tempo, mentre Conte arrivava solo e frettolosamente saliva sul palco. Solo a intervista iniziata da tempo, Letta e una parte dei dirigenti del partito trovava posto in prima fila ad ascoltarlo, come a manifestare interesse. Alla fine di un dibattito spesso interrotto da molti applausi dei tanti presenti, Conte è stato letteralmente sommerso dalla folla, mentre Letta se n’era andato.
A un occhio attento il quadro appariva chiaro: da una parte il segretario accerchiato dagli organi di partito e un po’ distante dalla gente; dall’altra un ex-premier, estraneo a maneggiare le dinamiche politiche, senza alcun dirigente del movimento al suo fianco e circondato invece dalle prime file del pubblico che l’hanno seguito e aspettato paziente e a lungo per un selfie o una stretta di mano. La cosa era accaduta anche l’anno scorso, quando una straripante via Zamboni accolse Conte per la sua partecipazione alla campagna elettorale bolognese. Anche in quel caso, la gente che partecipò spontaneamente voleva salutarlo e ringraziarlo, stringergli la mano. Erano centinaia. Due anni fa, ancora, alla festa de l’Unità di Modena, festa Nazionale voluta da Zingaretti, per l’arrivo di Conte addirittura si creò un cordone che dall’ingresso alla festa fino alla stand del dibattito si dispose su due file salutando con un lungo applauso l’ex-premier. Questa è stata l’accoglienza riservatagli in Emilia Romagna, roccaforte del Pd, dagli iscritti e militanti, frequentatori di sinistra delle feste dell’Unità.
Insomma, è sempre stato palese come la figura di Giuseppe Conte minasse qualsiasi prospettiva di leadership all’interno del Partito Democratico: la popolarità di Conte, spesso, più che favorire la creazione di alleati gli ha scatenato molte invidie. Per tali ragioni, l’incontro di quella sera tra Letta e Conte è stato un incontro impossibile, a distanza.
Ricordo, invece, ai tempi di Piazza Grande, quando da lì a poco nacque il governo giallo-rosso, che il rapporto tra Zingaretti e Conte era di tutt’altro tenore. Cordialità e corrispondenza tra i due; prova ne erano le forti sintonie con lo stesso Gualtieri o con Bettini, un’empatia che durò per molto tempo, fino all’avvicendamento tra Conte e Draghi, alle dimissioni di Zingaretti. Dall’arrivo di Enrico Letta, i Cinque Stelle e il Partito Democratico presero due vie differenti, la coalizione giallo-rossa non esisteva più.
Nonostante per oltre un anno la narrazione sia stata di tutt’altro stampo, il campo largo, tenendo dentro il neo-centrismo del binomio Calenda-Renzi, ma che doveva partire da un solido accordo con il Movimento 5 Stelle, Sinistra Italiana, LEU, ecc., vedeva nella realtà dei fatti politici una corsa al centro e un lento ma tenace sforzo di esclusione del M5S. Le stesse Agorà, tese all’allargamento del Pd e all’inclusione di soggetti anche afferenti ad altri partiti (vedi LEU), hanno nei fatti escluso qualsiasi apertura al movimento di Conte. Anzi, le primissime Agorà messe in campo da Goffredo Bettini che videro anche la partecipazione del leader del M5S presto sparirono. Insomma era già nelle cose, nell’inerzia che spesso caratterizza alcun vuoti politici, una tenue polarizzazione che corteggiava a mezze frasi Calenda e il consesso dell’ala dialogante del berlusconismo, volendo però preservare l’identità di Sinistra del Partito e ignorando invece la nuova proposta progressista di Giuseppe Conte.
Oggi questo spiega tante cose: il perché, per esempio, dopo la caduta del governo Draghi un’azione forse troppo avventata di Enrico Letta abbia sbarrato qualsiasi rapporto del Partito Democratico con il Movimento 5 Stelle. Un ragionamento politico non accade mai per caso, a meno che non si pensi che ci siano motivi trascendentali per i quali l’appoggio incondizionato di Letta a Draghi sia più da attestarsi al credo religioso che alla razionalità politica. Qualsiasi intoppo sarebbe stato superato di fronte all’urgenza di creare una coalizione credibile in grado di controbattere alle destre. Non può essere solo la questione dell’agenda Draghi o il fatto che Conte avesse fatto cadere il Governo a imporre la chiusura totale al M5S; forse questo va bene per le agenzie di stampa, ma sul piano politico è incomprensibile. Tanto più che la caduta di Draghi non andrebbe imputata solo a Conte – che aveva parlato di appoggio esterno- ma forse allo stesso Draghi che ha confermato le sue dimissioni quando è stato chiaro che Lega e Forza Italia l’avevano abbandonato. Insomma la questione del peccato originale di aver fatto cadere il governo Draghi poteva essere raggirata in mille modi, se ci fosse stata una volontà politica. Conte ha sicuramente fatto i suoi errori, pur avendole subite di tutti i colori, la scissione di Di Maio, la presunta telefonata tra Draghi e Grillo per farlo fuori. Certo, poteva tentare un ennesimo sforzo per evitare le elezioni anticipate (di soli 6 mesi) rispetto alla scadenza naturale, ma questo non giustifica in nessun modo una scelta politica del Partito Democratico ai limiti dell’autolesionismo che, chiudendo al Movimento 5 Stelle, ha così deciso di non competere sul 70% dei colleghi uninominali del Paese, nei fatti regalandoli a quella destra che descrivono come “pericolosa”.
Allora, come mai Letta, in maniera così determinante, chiude al Movimento 5 Stelle? Come mai sceglie di dire NO a un attore che sulla carta vale almeno il 10% per corteggiare invece un altro (Calenda) che ne vale il 5% e che soprattutto ha minato l’identità politica del Partito, mettendo a rischio l’alleanza con un altro attore dal potenziale 4% del duo Fratoianni/Bonelli?
La sensazione è che il vero problema stia nel fatto che la figura di Giuseppe Conte intaccasse pesantemente la questione della leadership della coalizione e dunque dello stesso Letta, di Calenda e di chiunque altro. Dopo Meloni, Conte è assolutamente il più forte come popolarità e impatto emotivo sull’elettorato. Lo confermano anche recenti sondaggi. Probabilmente questo per Letta era inaccettabile, così come lo era per la gran parte del Partito Democratico.
Non è ovviamente solo questo il motivo. Molte sono le sfere di influenza che si sono messe di traverso, ma questo già dai tempi della caduta del secondo governo Conte, voluta da terzi e messa in atto da Renzi.
Esiste un consesso, non omogeneo, non organizzato, che in qualche modo vede in Giuseppe Conte una minaccia per la tenuta dell’establishment, un problema su questioni importanti, come ad esempio l’atlantismo, un termine ormai talmente onnivoro per il quale chiunque ci finisca dentro viene attratto, stile trita-carne, in un cartello giornalistico aggressivo e spesso scorretto, pronto a trovare il pubblic enemy da sacrificare sull’altare. Conte ha portato avanti un disegno pacifista e si è sempre dichiarato atlantista. L’ha fatto però dichiarando che “non prenderà ordini da Washington” e soprattutto dopo aver aperto il dialogo con la Cina senza il permesso degli States. Atto che è stato probabilmente un’onta imperdonabile, perché di fatto mina la leadership commerciale dell’America di Biden.
Allo stesso modo le politiche del Conte-bis hanno rappresentato un problema per molte lobbies nazionali e internazionali. Sul piano economico e finanziario, per esempio, sono riuscite a minare alcuni paradigmi che tengono legata la società occidentale, intesa nel senso liberista del termine. La legge sul 110% per la riqualificazione energetica ha costituito un fatto inaccettabile per buona parte del sistema finanziario, in quanto rappresenta una misura fortemente Keynesiana in un sistema occidentale ormai basato sulla dottrina del minimo intervento statale sull’economia. È per questo che Draghi si è scagliato così ferocemente sulla misura? Al netto di tutte le disfunzioni e gli aggiustamenti del caso, quella legge è stata una misura anticiclica in grado di generare molti posti di lavoro, sviluppo delle imprese, rilancio dei consumi, e al contempo tutela dell’ambiente, contenendo i consumi energetici e dando una risposta al tema della povertà energetica.
Per non parlare poi del reddito di cittadinanza, una questione mai affrontata prima in un Paese come l’Italia, e attuata invece in buona parte d’Europa: una misura social-democratica messa in campo grazie al M5S, che la Sinistra ha sempre predicato senza mai riuscire a mettere in atto.
E ancora il cashback, misura semplice e altrettanto efficace e popolare, in grado di colpire direttamente l’evasione fiscale, e forse per questo diventata un problema. Tutto ciò ha determinato il forte indice di consenso su Conte, nonostante i molti problemi intrinseci del movimento che egli stesso rappresenta.
Per queste e altre ragioni l’ingombrante questione della leadership di Giuseppe Conte, uomo moderato ma al contempo antisistema, in grado di destabilizzare l’establishment senza rischiare di essere additato come estremista, ha probabilmente decretato la decisione del Partito Democratico di chiudergli la porta in faccia.
Una decisione di cui a breve vedremo i risultati dinnanzi agli elettori, per la quale forse si dovrà giustificare il perché, nel bel mezzo della campagna elettorale più veloce della storia, con una destra che secondo l’istituto Cattaneo sfiora il 46% e una legge elettorale che rischia di assegnare la maggioranza qualificata e la relativa facoltà di cambiare i connotati costituzionali del Paese a delle persone che in passato hanno avuto serie ambiguità con la dottrina fascista, si sia scelto di chiudere al M5S.
Si dovrà spiegare perché il Segretario del più grande Partito di sinistra abbia deciso di privarsi dell’alleanza con il secondo più grande partito della coalizione che propone temi progressisti, generando una serie di scetticismi all’interno del suo stesso elettorato e agevolando la nascita di un attore alla sinistra della coalizione (Conte) e un altro al centro (Calenda-Renzi). Allo stesso modo andrà poi spiegato il perché la sinistra abbia deciso di liquefarsi nella lista dei democratici e progressisti a scomparire in un annullamento totale di qualsiasi pozione significativa di contrasto limitandosi a candidature simboliche che, seppur di forte pregio, rimarranno inserite in un progetto politico perdente già dal suo concepimento. Errori che pagheremo tutti.