La Lega “di lotta e di governo” può portare alla caduta di Draghi
Con 400 morti al giorno la guerriglia della Lega rischia di portare alla distruzione del governo istituzionale. Il commento di Luca Telese
Quanto può durare la Lega “di lotta e di governo”? Il duello sul coprifuoco (a prescindere dal merito tecnico del problema) ha una conseguenza politica enorme: ha fatto emergere un difetto strutturale non immediatamente visibile, ma presente fin dalla costituzione del governo di Mario Draghi. Nel senso che un esecutivo istituzionale e “di scopo”, che ha come prima finalità il contrasto alla pandemia, non può permettersi un conflitto continuo sul principale asse strategico dei suoi provvedimenti. Non può, perché altrimenti implode.
Non hanno resistito, in passato, governi che nascevano da maggioranze politiche più omogenee. Va ricordato che il primo governo di Romano Prodi andò in crisi sulle pensioni e sul lavoro, il secondo addirittura per un voto su una base Nato. E che il primo governo di Silvio Berlusconi inciampò sul famoso decreto “salvacorrotti” (un provvedimento che allora era ritenuto marginale, varato in pieno agosto) e il secondo sul conflitto interno con Gianfranco Fini.
Questi governi, dunque, caddero su temi che erano importanti per quelle maggioranze, ma molto meno di quanto non sia il contenimento di una pandemia per il governo dell’ex direttore della Bce. Il retroscena plastico di questa difficoltà è quello del Consiglio dei ministri in cui Giancarlo Giorgetti – di fronte a un Draghi incredulo – alza la mano per annunciare che i tre ministri del Carroccio non votano con la maggioranza. E ci consegna uno scenario inedito.
È sicuramente vero che Salvini ha in testa un modello già sperimentato, quello del governo gialloverde, in cui lo stesso leader della Lega ogni giorno litigava con il M5s. Ma quello era un esecutivo politico e – di nuovo – non c’erano 400 morti al giorno da seppellire. Questo è ciò che rende insostenibile la guerriglia.
Ecco il tema: mentre in un governo politico si può persino trarre un vantaggio (politico) dal conflitto, è evidente che un governo istituzionale questo conflitto strutturale non può permetterselo. Nel senso che, a quel punto, il governo cade. Ma in questo caso gli elementi di complicazione aumentano. La guerra sulle aperture non è un episodio, ma il primo passo di una offensiva strategica che ha almeno altre due tappe cruciali già programmate nell’agenda della politica.
La prima è il dibattito sulla sfiducia a Speranza: la Lega non si spingerà certo fino a votare il testo della mozione di Fratelli d’Italia, ma non ha neanche nessuna intenzione di fare quadrato su Speranza. La seconda, subito dopo, è la proposta – ancora più insidiosa – della commissione di inchiesta sul Covid, che diventerebbe sempre un’arma contro il ministro (come la commissione Mitrokhin lo fu, nelle mani dell’opposizione di centrodestra, contro il governo di Prodi).
Quest’ultima carta è il vero attacco al cuore del governo. E se il Carroccio votasse la commissione di inchiesta otterrebbe l’effetto di far saltare tutto il banco. Come potrebbe, infatti, Speranza, accettare di essere messo sotto processo per due anni con il voto di un partito con cui teoricamente governa?
Ecco le tappe di una possibile escalation in cui l’obiettivo di Salvini è quello di smarcarsi per sottrarsi all’inseguimento di Fratelli d’Italia, che nei sondaggi tallona sempre di più la Lega. Secondo Swg, i rapporti di forza sono 21,2 per cento (per il partito di Salvini) a 18 per cento (per il partito della Meloni). Secondo un altro sondaggio, stavolta di Index Way per Piazza Pulita, la Lega è al 21,6 per cento (dopo ave perso un punto in una settimana) e la Meloni è al 17,8 per cento.
Da questo scenario emergono due domande: 1) fino a quando Draghi potrà sopportare la tattica di guerriglia interna di Salvini? 2) perché il premier non ha ancora strappato con il leader conflittuale?
La prima risposta è semplice: il 28 si vota la mozione di sfiducia a Speranza in Parlamento, e il premier conta sul fatto che Salvini (in quell’occasione) rientri nei ranghi, mettendo fine alla sua strategia mordi-e-fuggi. Ma bisogna porsi anche un altro problema: è immaginabile che Salvini – solo per quello che ha detto in questi giorni – voti a favore di Speranza e contro la proposta di un partito di centrodestra? Per lui sarebbe senza dubbio una pesante sconfitta sul piano dell’immagine, e il leader del Carroccio fino ad oggi ha giocato tutta un’altra partita.
La seconda risposta è più complessa, ed è legata ai motivi più profondi e meno indagati della nascita del governo: malgrado non fosse scritto in nessun accordo ufficiale, il patto costitutivo sottointeso del governo Draghi è l’ipotesi di arrivare con un candidato comune alla battaglia del Quirinale.
Non è un mistero che l’ex direttore della Bce sia un candidato naturale per quella battaglia, e non è un mistero che la coalizione di governo sia la base parlamentare naturale di quella candidatura.
Oggi il premier sa, che con il M5s in fibrillazione, i voti della Lega non sono numericamente determinanti, ma sono politicamente molto utili, soprattutto in una fase in cui la prima forza parlamentare del paese è ancora priva di guida politica, e può essere attraversata – su un voto libero – da tante spinte centrifughe.
Ecco perché la Lega, contro ogni apparenza, ha ancora un margine utile per la sua strategia di lotta e di protesta: e in questo spazio ristretto continua a battersi fino all’ultimo sangue. Ecco perché solo il voto sulla sfiducia a Speranza ci dirà se la tensione è destinata a scemare o se – soprattutto dopo il semestre bianco (quando il presidente perde l’arma dissuasiva del voto anticipato) – il conflitto strutturale è destinato a deflagrare.
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