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La “politicizzazione” del marketing e il coraggio di essere divisivi (di Lorenzo Zacchetti)

L'attenzione suscitata dallo spot di Lavazza che cita "Il Grande Dittatore" non è un incidente di percorso, ma l'ennesima conferma di come stia cambiando la comunicazione aziendale

 

Lavazza, la “politicizzazione” del marketing e il coraggio di essere divisivi

L’ultimo spot di Lavazza, “Good Morning Humanity”, ha scatenato forti polemiche da parte di sovranisti, omofobi e più in generale da una destra conservatrice e nostalgica. Realizzato da Armando Testa, lo spot utilizza il famoso “discorso all’umanità” tratto dal film “Il Grande Dittatore”, abbinato a immagini che invitano alla tolleranza e all’unità. Un brano di 80 anni fa concepito per invitare a ritrovare una dimensione più umana e che assume un significato nuovo oggi, visto che siamo tutti accomunati dalla minaccia del Coronavirus. Eppure lo spot è risultato divisivo e, per alcuni, decisamente indigesto. Una sorpresa? Un autogol? Certamente no. Né all’azienda, che ha scritto diverse pagine della storia della pubblicità in Italia, né all’agenzia, che ha senza dubbio cercato questo tipo di impatto, possono essere sfuggite le dinamiche del marketing.

A inizio anno, prima che la pandemia mandasse a gambe per aria il mondo che conoscevamo, da un incontro pubblico tra Rosie Blau (editor in chief di “The Economist – 1843 Magazine”) e Alberto Dal Sasso (Managing Director di TAM Adintel Nielsen e Presidente della di IAA Italy) era emersa un’indicazione chiarissima: “Il 2020 sarà l’anno della ‘Politicization’ del marketing”, una tendenza che peraltro già avevamo conosciuto negli anni precedenti.

Lo spot Lavazza: cosa s’intende con “politicizzazione”

Con il termine “politicizzazione” si intende una fase nuova, nella quale i brand comunicano dei valori sociali (e, appunto, “politici” in senso ampio), che prescindono dal valore dai propri prodotti. In realtà, questo è sempre avvenuto. Non è sempre la qualità di un prodotto a stabilirne il successo e il prezzo di mercato: anzi, sono noti casi nei quali gli stessi stabilimenti realizzano prodotti identici tra loro, alcuni dei quali vengono marchiati con un brand più prestigioso e costoso ed altri con un brand di fascia più bassa, spesso dello stesso gruppo. Il diverso costo del bene non ha nulla a che fare con la sua qualità oggettiva, bensì con la brand-awarness e con l’immagine che il brand si porta dietro, in termini di lifestyle, spinta motivazionale e desiderio di ascesa sociale.

Fino ad ora, però, si è sempre prestata molta attenzione a non sbilanciarsi troppo sui temi considerati “divisivi”, come appunto la politica. Per chi cerca il massimo consenso possibile, dichiarare di stare da una parte comporta il rischio di perdere di chi la pensa diversamente. Pertanto non solo gli amministratori delegati delle aziende, ma anche personaggi pubblici di altra estrazione e persino i calciatori professionisti (un caso emblematico) sono sempre stati molto prudenti nell’affrontare certi argomenti.

Lo spot Lavazza: come sta cambiando la comunicazione aziendale

Cosa ha indotto il cambiamento? La considerazione che la competizione non potesse basarsi solo sul prodotto è stata data per acquisita, in più è subentrata la consapevolezza di una rilevanza sempre maggiore delle aziende nella società, non solo nell’economia. Questo porta al fatto che agli imprenditori vengano sempre più spesso posti quesiti che riguardano non solo il mercato, ma anche la società nel suo complesso. Sbagliare l’approccio con i media può costare caro. Lo sa bene Guido Barilla, che dopo aver dichiarato a “La Zanzara” che non avrebbe mai fatto uno spot con una famiglia gay è stato duramente criticato e ha dovuto chiedere pubblicamente scusa, per fermare un possibile boicottaggio.

Non c’è minaccia peggiore per un brand che un boicottaggio organizzato su grande scala e questo ha anche una forte valenza politica. Un esempio recentissimo lo abbiamo avuto nel milanese, dove due grosse catene di supermercati hanno dovuto annullare le rispettive iniziative di beneficienza in collaborazione con una Onlus che è risultata legata a un gruppo di estrema destra. A fronte delle proteste dei consumatori, la risposta è stata identica: “Questo gruppo non rispecchia i nostri valori, sospendiamo la collaborazione”.

Essendo sempre valido il primo assioma della comunicazione della scuola di Paul Watzlawick (“è impossibile non comunicare”), bisogna imparare a farlo, anche e soprattutto quando si tratta di temi “divisivi”. Anzi, l’accezione negativa che si dà a questo termine, va superato con la consapevolezza che sono ben pochi i temi sui quali pare esistere una comunanza di idee globali. La forte disaffezione nei confronti della politica ha convinto molte persone del fatto che i propri consumi possano incidere sulla società persino più del proprio voto. E non si tratta di un’idea balzana, ma di un dato che emerge da una ricerca di Edelman sul “trust” (ovvero il livello di fiducia riposto in un brand).

Agli esempi già fatti, possiamo aggiungere l’ostracismo nei confronti di alcune aziende che si erano macchiate di comportamenti lesivi dei diritti umani e dell’ecologia o comunque contrari all’etica del loro target. Esistono anche casi molto più sottili, come la rivolta avvenuta a Hong Kong contro i punti vendita di Starbucks: il brand americano non c’entrava nulla con le tensioni nel Paese, ma uno dei più importanti licenziatari locali si era dichiarato filo-governativo.

La succitata analisi di Edelman ha evidenziato che che il 47% del campione esaminato si fida di un brand per la sua qualità, il 55% perché viene trattato bene dal nel post-vendita, mentre addirittura il 68% dichiara di acquistare preferibilmente quei brand dai quali si sente più rappresentato e che hanno un impatto positivo sulla società.

La qualità del prodotto è solo una base di partenza sulla quale poi il brand deve innestare una efficace campagna di comunicazione, che sia soprattutto coerente. Improvvisarsi paladini della causa più di moda non funziona: il mercato cerca linearità e non è disposto a perdonare fenomeni di ipocrisia come il “pinkwashing” o il “greenwashing”.

La questione è particolarmente complessa per le multinazionali, che devono interfacciarsi con diverse culture e sensibilità locali, pur mantenendo un’unitarietà complessiva nella propria comunicazione. Ciò da un lato spinge i manager più avveduti a farsi affiancare da esperti di marketing che abbiano anche un background politico e la capacità di leggere i trend sociali. Dall’altro, la politica deve immaginare un modo diverso di relazionarsi con il mercato, sapendo stringere alleanze virtuose laddove possibile, ma soprattutto riportando al centro le persone, la cui unione può incidere fortemente sui processi in corso e sui relativi interessi economici.

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