La vita dopo il lockdown: come ricomporre la nostra routine (e migliorarla)
Siamo tutti reduci della quarantena. Hai paura di uscire, o ti impigrisci all'idea, ma non sai perché? Nulla di nuovo. Come gli americani dopo le due torri, siamo vittime della “sindrome della capanna”
Siamo davvero affetti dalla sindrome della capanna? Reazione opposta alla fase 2? “Hai voglia di uscire stasera? Che facciamo? Ci vediamo?” La fase 2 sembra esporre a diversi dilemmi. Una domanda, un tempo normale, in questa fase post lockdown sembra sollecitare dilemmi psicologici. Francesca riferisce: “ha paura di uscire, non sono pronta a riaffrontare questa nuova realtà, non mi sento al sicuro! Quando esco mi sento agitata, disorientata, distaccata, provo un senso di irrealtà. È successo tutto troppo in fretta”.
In questi giorni se ne discute molto e, in effetti, si osservano diversi atteggiamenti, come: scarso adattamento, diminuito interesse verso l’esterno, paura all’idea di uscire definitivamente dal confinamento in cui siamo stati bloccati. Aver trascorso molte settimane in isolamento ha forse abituato la nostra mente e il nostro copro ad una sensazione di protezione e sicurezza domestica, inconsueta, distante dall’ormai pregressa quotidianità, alimentando stati di ansia e disforia nell’intraprendere nuovamente gli impegni e la normale attività – quotidianità? Sono molti coloro che si percepiscono fragili e sperimentano uno stato di frustrazione, stanchezza, malessere fisico, stress, ansia, necessità di riposare spesso, scarsa concentrazione e demotivazione.
Sono davvero postumi della quarantena e del lockdown? Abbiamo avuto l’occasione di crearci uno spazio in cui ci sentivamo protetti e ora non vogliamo abbandonarlo? Quindi, siamo spaventati o è soltanto questione di tempo?
In questi giorni, nell’immaginario collettivo, si parla tanto di “sindrome della capanna” ovvero uno paura diffusa di tornare alla normalità o una vera difficoltà di adattamento (Società Italiana di Psichiatria – SIP). È forse una sindrome che stiamo scoprendo ora? In diversi paesi si è già riscontrata, come in nord America e nord Europa in cui i climi freddi e rigidi espongono le persone a lunghi periodi di costrizione in casa (letargo). Tale sindrome è stata molto discussa circa eventi traumatici come nel post attentato alle Torri Gemelle. Le persone dopo l’attentato hanno avuto per molto tempo difficoltà a riadattarsi nella società, essendo vivo il tema della minaccia terroristica. Sta forse succedendo anche a noi rispetto alla minaccia del Covid nel mondo esterno? Oppure la vera minaccia potrebbe risiedere nel doversi confrontare con una realtà modificata, diversa e dunque nel doverla rielaborare riadattandosi?
Osserviamo diverse persone che riferiscono ansia, angoscia e una sensazione di confusione mentale non riuscendo a comprendere cosa accade, e altri, che hanno realmente perso qualcosa, si trovano a dover affrontare lutti di diverso ordine. C’è chi ha perso i propri cari, chi non ha un lavoro, chi non riesce a portare avanti i programmi, chi ha sospeso le proprie attività, rinunciato a degli scopi un tempo portanti e motivanti.
Marco durante le ultime sedute riferisce: “mi sono bloccato più volte sull’uscio della porta”. Mi prende l’ansia quando devo uscire, oppure mi rattristo. Sono dibattuto se è meglio per me uscire o rimanere a lavorare in modalità “Smart working”? Cosa faccio? Cosa è meglio? Perché avverto questa conflittualità?” Potrebbe essere in atto una demoralizzazione generalizzata e chiaramente ancora di più, in questa situazione, si avvertono le differenze sociali e culturali; non tutti hanno disposto delle stesse risorse. Molti sono coloro che riferiscono di stare bene a casa e molti invece pensano che sia troppo presto e frettoloso recuperare un ritmo consueto e normale. Siamo forse passati dalla paura di rimanere chiusi al desiderio di essere distanziati? Davvero le abitudini si modificano cosi in fretta? E quelle consolidate da anni che fine hanno fatto? Forse in questo senso gioca un ruolo cruciale la paura oppure stiamo ancora elaborando quello che la quarantena ha riportato a galla in questo periodo di riflessione? Ci siamo rifugiati – protetti – e adesso? Ecco, forse proprio in questa fase bisogna tirare fuori le risorse e riadattarsi in modo stenico e resiliente.
Questo doversi riadattare potrebbe essere vissuto come un secondo “decreto” a cui doversi attenere e forse è proprio il non voler essere gestiti dall’esterno a determinare una sorta di rifiuto verso quella normalità che ci è stata tolta in modo brusco e repentino. Ancora una volta dobbiamo attenerci a una regola? Allora restiamo nelle nostre capanne e cerchiamo un equilibrio interiore. È questa una possibile spiegazione. Ma d’altra parte si assiste a una sorta di conflitto di scopi: ovvero sentiamo la necessita di recuperare in fretta la quotidianità perduta, e al contempo, avvertiamo la voglia di coccolarci in solitudine sapendo che la porta di casa è aperta e dunque possiamo nuovamente scegliere. Questo stallo che abbiamo vissuto potrebbe chiamare anche il concetto di crisi, che in psicologia porta con se innumerevoli significati: esso comporta dolore, ma anche ri-pianificazione, ri-adattamento, perdita e allo stesso tempo conduce a nuove conoscenze, evoluzioni, elicita un’acquisizione di una rinnovata consapevolezza o di una nuova abilità ma si caratterizza a causa di un grado di disagio e differenza. Basta pensare al nostro sviluppo per capire quanto “la crisi” prevede spesso una rinascita, un evolvere, dunque una crescita – una sorta di forza propulsiva che accelera e pretende cambiamento. Bussa e reclama riflessione: scelte chiare! Dalla sofferenza impariamo: un giorno questo dolore ti sarà utile!
Dunque, è molto plausibile pensare che questa brusca interruzione della quarantena, questo spaccarsi dell’abitudine e della routine che contiene o comprime, abbia generato non solo una crisi individuale, ma parallelamente collettiva, in cui tutto muta, si scompone, si trasforma. Cambiano gli scopi, mutano le intenzioni, i desideri, alcuni dei nostri obiettivi possono essere minacciati, altri risvegliati, alcuni addirittura diventano meno importanti e pertanto vengono disinvestiti. Insomma, questo momento richiede certamente una riflessione. È stato una sorta di viaggio non previsto, un itinerario non scelto, una fermata obbligata. Una sosta indesiderata che disorienta ma che in fondo man mano, forse, potrebbe portarci a ritrovare delle parti di noi stessi, delle nostre vite che lasciavamo nascoste, dei sentimenti che non volevamo assolutamente vedere, dei conflitti coperti, negati, o che tenevamo a bada nel via vai frenetico, e che invece oggi più che mai vogliono e prendono spazio.
Allora, adesso, che non siamo più cosi impegnati a difenderci, a distrarci, ora che possiamo allentare il nostro sistema di vigilanza e lotta alla sopravvivenza, bisogna accendere il motore dell’elaborazione, occorre provare a dare un senso a quanto accaduto, bisogna riaggregare la propria coscienza, rimettere assieme i pezzi – integrarli- ricomporre e riformulare un progetto esistenziale rinnovato che possa aver imparato qualcosa da un evento imprevedibile e sfortunato. La fase dello spavento e della paura deve lasciare spazio alla voglia di vivere con maggiore pienezza l’esistenza! Dunque cauti, previdenti, ma volenterosi di riconquistare il timone della nostra vita – individuale e collettiva.
1. Psicopandemia: la paura del Coronavirus e gli effetti psicologici su tutti noi / 2. Coronavirus, giovani e adolescenti in quarantena: i consigli dello psicoterapeuta / 3. Psicopandemia, Fase 2: il mondo fuori non è più quello di prima (e neanche noi lo siamo)