La velocità del mondo di oggi ha ucciso il dibattito politico
Non è mai semplice elencare quali sono i tratti che definiscono la società nella quale si vive, ma uno degli elementi che caratterizza quella di oggi è probabilmente la velocità. Si tratta di un valore attribuito a molte delle azioni che compiamo: ordiniamo pacchi che arrivano dall’altra parte del mondo in poco più di 24 ore e abbiamo connessioni internet sempre più veloci.
Solo pochi anni fa, se avessimo voluto sapere, ad esempio, quanti abitanti ha la Bulgaria, avremmo dovuto essere in prossimità di un atlante, aprirlo, sfogliarlo seguendo l’ordine alfabetico, trovare la pagina esatta e, al suo interno, trovare l’informazione che ci interessava. Oggi, invece, è sufficiente prendere da una tasca il nostro smartphone e digitare la domanda: in pochi secondi la nostra curiosità sarà saziata.
Gli esempi su tutti i comfort e le novità tecnologiche che hanno contribuito la nostra società a essere sempre più veloce su scala globale potrebbero essere a migliaia, ma ciò di cui spesso non ci rendiamo conto sono gli effetti che tale rapidità ha sulla società. La nostra abitudine ad avere risposte subito ha infatti influito su molti nostri comportamenti, e stavolta non parliamo di effetti sempre positivi.
Il tempo che dedichiamo a farci un’opinione su qualcosa è oggi esponenzialmente inferiore al passato. Come vogliamo risposte subito da Google, le vogliamo anche dalla politica, e questo ha favorito necessariamente i messaggi più rapidi, favorendo talvolta posizioni più nette e lasciando meno spazio a quelle più complesse.
Solo fino a pochi anni fa, i principali candidati puntavano soprattutto al voto moderato, e persino i partiti più schierati cercavano di fare scelte che non spaventassero i moderati, secondo una locuzione all’epoca molto in voga. Oggi i tentativi di creare terzi poli che guardino a situazioni più trasversali e complesse, seppur ancora presenti, sono più rari e dal sapore vintage, e il loro eventuale successo, quando arriva, non è legato al loro guardare al centro.
Il problema di questa mentalità non è però la scelta degli elettori, che è sempre legittima. Il vero problema è la dialettica che si viene a creare nel dibattito politico, sempre più semplice e che rischia di favorire un tifo da stadio anziché una discussione costruttiva. Non serve andare su remoti gruppi Facebook per capire che, anche ai livelli più alti, assistiamo a scontri in cui le posizioni sembrano essere solo “immigrati sì o immigrati no”, “Trump sì o Trump no”, “Conte sì o Conte no”, e via dicendo. L’informazione deve essere più diretta possibile, nella politica come nei media, e l’appiattimento del dibattito ne é la naturale conseguenza.
La posizione intermedia, complessa, che va oltre la contrapposizione da stadio sembra sempre più difficile da trovare, prima di tutto perché è più difficile da esprimere. Questo ha avuto come conseguenza un appiattimento del linguaggio e del dibattito, spesso ridotto semplicemente a una gara a chi urla di più, e a un ulteriore elemento divisivo, soprattutto in un momento in cui ci sarebbe bisogno di una grande coesione.
Da ormai un anno a questa parte siamo costretti a fasi alterne a trascorrere molto tempo a casa e a ridurre fortemente i momenti frenetici, un fatto che ci ha costretti a rivedere molto il senso dei nostri spazi e i ritmi della nostra vita. Tante volte ci siamo detti che dalla pandemia ne usciremo migliori, come se ciò avvenisse in maniera automatica, senza una volontà o un’azione specifica.
Tuttavia se c’è qualcosa che può renderci migliori è provare a sfruttare questo tempo per approfondire le nostre convinzioni, quali esse siano, e dedicare qualche minuto in più ad esporre le proprie idee e ascoltare quelle degli altri. Se riusciremo a trasformare le discussioni da tifo da stadio a un sano dibattito, almeno in questo saremo usciti migliori.