La scelta del Pd sulle alleanze influenzerà le elezioni estive più pazze del mondo
Con chi vado al voto? Nelle prossime ore il Pd prende la decisione che influenzerà tutte le altre, nella sfida dell’estate.
Si vota il 25 settembre, infatti, le elezioni anticipate cambiano la specialità olimpica con cui si gareggia, la maratona è finita, e questo voto sarà molto simile a una corsa dei cento metri. Le gare eliminatorie sono già iniziate. Ieri.
Occhio al calendario, dunque, se volete capire. Entro il 15 agosto bisogna presentare le liste, e di conseguenza anche gli apparentamenti della coalizioni: questo significa che entro otto giorni si decide come si parte ai blocchi della gara più difficile e rapida nella nostra storia. Fino a ieri si pensava, che, con qualche variante minore, avremmo avuto in campo due soli poli, due alleanze forti, e intorno alle gradi alleanze, solo qualche piccola lista a caccia dei consensi. Il che è decisivo per la corsa dei collegi – cento alla Camera – che saranno assegnati con il sistema maggioritario. Per dire: se hai due poli in campo, il risultato della quota maggioritaria può finire con molta probabilità sessanta a quaranta per chi vince (in linea di maggiore probabilità il centrodestra). É un risultato bilanciato, a cui si aggiunge quello del voto proporzionale, con cui si determina la parte più grande della nuova Camera, trecento eletti (che portano a 400 il totale degli eletti a Montecitorio). Con due soli poli, dunque, chi vince non stravince. E – per dire – non ha la possibilità di cambiare autonomamente la costituzione da solo o con i sui alleati (perché non ha nessuna probabilità di arrivare alla maggioranza dei due terzi.
Ma, se ci sono tre poli, questo scenario improvvisamente cambia: con tre contendenti la divisione dell’opposizione (in qualsiasi forma) ha un doppio effetto maggioritario. In primo luogo, infatti, rende potenzialmente possibile (cioè) che quei cento deputati dei collegi maggioritari siano divisi in modo drastico: anche novanta a dieci per chi vince. Questo perché nel voto dei collegi, con la maggioranza relativa, in mancanza del secondo turno, si vince ovunque. Esempio: con due poli la sinistra poteva vincere due collegi a Milano città, o a Roma città, o in Toscana, o fiori di Napoli in Campania, o in Puglia. Ma se ci sono in campo due schieramenti dell’area di centrosinistra (da un lato il Pd più alleati, dall’altro un polo più radicale con il M5S di Conte e un alleato di sinistra) basta avere il tre per cento in meno in ogni collegio per perdere in moltissimi collegi. Proiettate questo effetto su tutta Italia: se ti manca anche solo il tre per cento in tutta Italia, puoi perdere cinquanta collegi “marginali” (in cui magari te la giocavi) in tutta Italia.
Ecco perché la scelta più delicata del Pd di queste ore (mantenere l’alleanza con Conte o no) ha due effetti collaterali enormi: hai il potere di indebolire il suo concorrente a sinistra. Ma poi lo costringe ad andare alla sfida con la destra “disarmato”, come la cavalleria polacca, contro i carri armati tedeschi nella seconda guerra mondiale. Oggi La Repubblica titolava che “Letta ha già scelto”. E tutti i giornali riportavano dichiarazioni concilianti di Conte (come se fosse convinto che la rottura non si verificherà). Ma forse entrambi i leader dei due principali partiti dovrebbero riflettere meglio su questo passo grave.
Se non altro perché – anche se sembra non ricordarlo nessuno – questo scenario, con altre formule, si è già verificato. Nel 2008, infatti, Walter Veltroni strinse un accordo scellerato con Fausto Bertinotti: ognuno andava per sé, alle elezioni. Da un lato il neonato Pd, all’altro una lista di tutte le forze della sinistra radicale. Andavano consensualmente divisi (pensate che Bertinotti fu così stupido da festeggiare). Che senso aveva la mossa? I due fratelli coltelli, pensano ognuno di capitalizzare i propri consensi. Veltroni si scelse un alleato “paggio”, che all’epoca era l’Italia dei valori di Antonio Di Pietro.
I sondaggi di partenza davano il polo arcobaleno di Bertinotti poco sotto il dieci per cento. Di Pietro contava più o meno il quattro per cento. Era convinto che questo assetto avrebbe raccolto da due bacini, con il Pd che avrebbe rubato voti al centro della destra. E con i dipietristi che avrebbero svuotato Bertinotti.
Ma lo scenario cambiò molto rapidamente, durante la campagna elettorale. Il primo risultato, previsto da Veltroni, fu questo: effettivamente il meccanismo del cosiddetto “voto utile”, dentro il centrosinistra, distrusse il consenso effimero del leader di Rifondazione. Man mano che ci si avvicinava al voto – dunque – i consensi di Bertinotti crollavano. E alla fine il risultato mise fine – ingloriosamente – alla sua carriera politica, con lo smacco di un mancato quorum. Ma anche a Veltroni andò male: puntare la campagna sul “voto utile”, infatti, lo aiutò a drenare consensi dentro la sua coalizione, ma non funzionò con la destra. Perché produsse un altro voto utile, nell’altro campo, che trattenne il voto di centro a destra. Bel paradosso. Questo effetto distrusse le ambizioni di vittoria del leader del Pd, facendogli fare la nota fine della cavalleria polacca. Veltroni chiamava questa strategia la “Vocazione maggioritaria”, anche se aveva un alleato in Di Pietro (che a sua volta sottrasse anche lui “voti utili”, ma sempre e solo a Bertinotti, raddoppiando i suoi consensi). Ma inutilmente.
Già, perché il centrodestra, per quel meccanismo speculare, trionfava nei collegi: il misero ‘tre virgola’ di Bertinotti tenne la lista Arcobaleno sotto il quorum (che all’epoca, con un’altra legge elettorale, era al 4%), ma gli fece perdere tantissime sfide maggioritarie. Veltroni partì da piazza Venezia, in un clima quasi festante, su di un pullman modello Prodi, lanciando una imponente campagna di grandi affissioni in cui spariva il rosso. In questi manifesti sei per tre metri, dominati dal verde, si leggevano tanti slogan ottimistici. La campagna aveva anche una accattivante colonna sonora di Jovanotti: “Mi fido di te”. Veltroni fece delle belle liste, godeva di una immagine ottima (aveva amministrato, e bene, Roma). Mentre Berlusconi ritirava fuori i manifesti con una foto ritoccata di venti anni prima. Veltroni scriveva sui suoi poster: “Non cambiate governo, cambiare paese”. Berlusconi prometteva un nuovo miracolo. Veltroni iniziava il suo tour dal bellissimo borgo di Spello, con dietro alle spalle lo scenario naturale di un incantato panorama umbro. Berlusconi ripartiva, come sempre, da Arcore, dal nord, e aveva riunito tutte le destre (fino a quelle estreme) per aumentare la propria forza maggioritaria. Veltroni iniziò con una battuta folgorante: “Vedo che il Cavaliere ringiovanisce e guadagna capelli, sui manifesti, ad ogni campagna elettorale. Alla prossima avrà una chioma più rigogliosa di Jimmie Hendeix”. La sinistra rise, poi si commosse per Spello, poi si intenerì per la colonna sonora di Jovanotti. E infine perse. Il 35% dal polo Veltroniano dei voti produsse una disfatta elettorale. Pochi giorni dopo quella batosta, gli effetti furono tali, che il leader e fondatore del Pd si dimise, dopo il voto per le regionali in Sardegna, dove il commercialista di Berluscon, Ugo Cappellacci, aveva umiliato Renato Soru con una sconfitta sorprendente. Persino li, e malgrado gli ottimi risultati della giunta Soru, gli elettori non votarono Capoellacci, ma i manifesti con le foto tarocche del Cavaliere.
La “vocazione maggioritaria” era definitivamente finita con la mattanza di Cagliari. I dirigenti del Pd che Veneri dopo quel doppio diluvio, con in testa Nicola Zingaretti, dissero che avevano imparato la lezione, e promisero solennemente: “Mai più”. Ma oggi la tentazione della vocazione maggioritaria ritorna. E la tentazione è: usare la sconfitta e il meccanismo del “voto utile” per selezionarsi “il compagno di banco” all’opposizione (in questo caso i centristi e Calenda, forse anche Di Maio). È incredibile come a sinistra, dopo tante sconfitte, sia i moderati che i radicali, fatichino a imparare la lezione più antica del Novecento: divisi si perde.