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Adesso è ufficiale: la gente preferisce farsi ingannare dai giullari, che credere alle élite

Immagine di copertina
Donald Trump, Boris Johnson e Matteo Salvini

Diceva Nelson Mandela: “O si vince o si impara. Non si perde mai”. Come sarebbe bello che la politica avesse ancora questa caratura, questa forza, questa capacità di restare lucida di fronte alle vittorie e alle sconfitte, per poterle decrittare, per poterne capire il senso.

Questa massima – per esempio – potrebbe tornare utile per tacitare, in queste ore, tutti quelli che hanno già trovato una lettura semplificata di comodo che spiega il risultato inglese in poche facili parole: “Corbyn ha perso perché era una tardo-marxista, statalista antisemita”.

Mentre, ovviamente, “Boris Johnson ha vinto perché è stato moderno, sagace e geniale”. Accademia di politologi da bar. Il fatto curioso è che questa interpretazione in Italia sulla sconfitta del Labour in Gran Bretagna non nasce a destra, dove una lettura di questo tipo sarebbe pienamente legittima, ma addirittura nel centrosinistra, dove qualcuno pensa di utilizzare il risultato delle elezioni politiche generali per un regolamento di conti interno, come esempio per castigare “i massimalisti”.

Dove – tanto per fare un esempio – Matteo Renzi usa Corbyn (lo ha fatto con un buffo tweet a caldo) per attaccare il Pd e legittimare se stesso. Un tentativo divertente, ma anche puerile: se si potesse stabilire una relazione diretta fra l‘Italia e l’Inghilterra sulla base di una equazione così banale, Renzi ha portato il Pd al 18 per cento mentre Corbyn il suo Labour al 33 per cento: c’è una certa differenza di volume tra i blairiani fuori tempo massimo e i neo socialisti.

Fra l’altro, l’alternativa “di centro” al corbynismo, i Libdem, hanno raggiunto uno dei peggiori risultati della loro storia, culminato con la trombatura della sua leader, Jo Swinson, sconfitta sia a livello di partito che sul piano personale, non risultando rieletta alla Camera dei comuni (malgrado un piccolo incremento dovuto al voto in in uscita dal Labour).

Si potrebbe persino aggiungere – se le cose fossero semplici – che i laburisti, con il loro 33 per cento, in questo momento (insieme a Syriza in Grecia, e ai socialisti portoghesi) sono il più grande partito socialdemocratico d’Europa, mentre come è noto gli italiani sono al 20 per cento (dopo ben due scissioni!) i francesi al 6 e i tedeschi al 15, mentre gli spagnoli del Psoe (che pure sono andati al governo) sono calati al 28.

Ma il segnale delle elezioni britanniche è più complesso, e profondo. Il Labour segue una tendenza mondiale dei flussi elettorali: ha tenuto a Londra, nella capitale cosmopolita, nelle grandi città, in alcune zone di insediamento, ha ha perso nei collegi del cosiddetto “muro rosso”.

E ha ceduto voti nei confronti del Brexit Party, che – alleandosi in una furbesca desistenza con i conservatori – gli ha tolto voti nei collegi popolari e periferici, quelli di radicamento storico e sociale del Labour.

E qui ci sono le due riflessioni utili di questo voto. Boris Johnson, da perfetto “turbopopulista” moderno, ha cavalcato una sola e unica parola d’ordine: “completare la Brexit”.

Mentre i laburisti spostavano il fuoco della loro campagna sulla protezione sociale, sugli investimenti ecologici e sulla sanità, sui servizi pubblici (in un tentativo disperato di rassicurare gli spaventati) questo furbo e spregiudicato esponente della classe dirigente, camuffato da figlio del popolo che sa ruttare in birreria, ha copiato Trump e Salvini, ha calvalcato la ruspa (lo ha fatto davvero, fisicamente), ha coniato un “Make great Britain again” che ha sedotto la working class britannica, parlando alla nostalgia del passato, esattamente come Trump aveva fatto negli Stati della ruggine.

Boris è stato bravissimo a surfare sulla rabbia e sulla paura, declinando nel suo paese questi principi vitali e predatori del moderno populismo.

I turbopopulisti usano il corpo come un espositore della loro narrazione, sono dei moderni Zelig pronti a calarsi nei panni più utili, anche quando non sono i loro: la foto-simbolo di questa campagna elettorale britannica 2019, non a caso riversata ovunque dai media popolari, è quella di Boris “travestito” da venditore di pesce (mentre visita uno dei collegi storici della sinistra che passerà a destra).

Proprio lui che con il suo amico Cameron – in una meravigliosa foto d’epoca – giocava a fare il baronetto “eatoniano”, figlio d’arte educato in uno dei college più esclusivi dell’Inghilterra. Come Trump, come Berlusconi.

Sono ricchi che si travestono da poveri: e che riescono ad apparire convincenti perché i poveri, o le classi lavoratrici, preoccupate dopo un decennio di crisi non possono e non vogliono credere ai messaggi rassicuranti dell’establishment, delle élite, al rigore (ai vari Mes), ai vincoli di bilancio, alle buone maniere.

Preferiscono farsi ingannare dai giullari, che credere alle élite. Non si fidano della protezione sociale offerta dalla sinistra: perché la suggestione della rabbia rende più accattivante l’indicazione di un nemico, piuttosto che il prospetto di una tutela.

La chiave della sconfitta di Corbyn, oltre alla poderosa macchina del fango che lo ha inseguito in questi quattro anni, è che il Labour – come Syriza- non ha cercato scorciatoie, non inventato nemici sociali.

Ciò che unisce i turbopopulisti, invece, è proprio questa straordinaria capacità di andarseli a cercare – i nemici – di scovarli, di renderli mostruosi, e addirittura (se serve) anche di inventarseli.

Gli “spaventati” britannici hanno creduto ai due nemici che gli ha indicato Boris: l’Europa e gli “aliens”. Ovvero gli immigrati, persino gli immigrati comunitari, fra cui ovviamente gli immancabili “lattonieri polacchi” e i “pizzaioli italiani”.

Cosa davvero grottesca e persino una straordinaria operazione per un cosmopolita come Johnson, nato a New York, e cresciuto a Bruxelles, figlio di un eurodeputato e con un nonno ex ministro (turco).  Ma in questi tempi le maschere e le grandi narrazioni del verosimile contano molto più della realtà.

Adesso un vento potente – e questo è il secondo elemento – ridisegna i rapporti di forza del mondo: un asse linguistico, populistico e geopolitico atlantista, angloamericano e profondamente anti-europeo mette le radici tra Londra e Bruxelles.

Non ripetetevi che questi leader turbopopulisti sono furbi e bravi, perché questo è banale. Non scandalizzatevi sdegnati della loro “cattiveria” quando cannoneggiano gli ideali e le istituzioni europee (è scontato), o quando alzano muri, non fingete di stupirvi quando poi i nemici grazie a cui hanno preso i voti se li andranno a cercare davvero.

Non chiedetevi che terremoto produrrà la Brexit, quando si realizzerà davvero, se oggi avete dato un’occhiata alle borse pensando: in fondo non è successo nulla.

Domandatevi quando e chi pagherà il conto della Brexit, perché qualcuno lo pagherà, questo è certo. Chiedetevi come si fermerà la secessione della Scozia, perché la Scozia la chiederà di nuovo, potete starne certi.

E in Italia interrogatevi su quali istituzioni potranno arginare la forza di Salvini se dovesse vincere in Emilia Romagna, o in Calabria, o in Senato, magari grazie a qualche sagace compravendita, perché da oggi tutto questo è più probabile.

Chiedetevi chi pagherà il conto di Trump e dei mandarini cinesi quando scopriremo che in questi anni si sono prodotti danni ambientali irreversibili in tutto il pianeta.

Non ridete perché Dowming Strett diventa “clowning street”: perché come ci ha spiegato il cinema, le maschere comiche, nel tempo della crisi e dei Joker, diventano sempre potenti e tragiche.

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