L’Italia riparte, il pallone può attendere
Il nuovo decreto di Giuseppe Conte ci pone davanti a una sfida: il 4 maggio il Paese comincia la Fase 2, ma non ci sono ancora le condizioni perché possa riprendere anche il campionato di calcio
Da un lato c’è la necessità di ripartire per non affossare del tutto l’economia. Dall’altro i naturali timori di un Paese ancora attanagliato da un’epidemia della quale sono più le cose che non sappiamo di quelle che abbiamo capito. Non nutrire dubbi sui rischi che stiamo correndo non sarebbe coraggioso: sarebbe folle. Se questo vale per i settori produttivi portanti, a maggior ragione lo si deve dire per il calcio, che amo quanto la maggioranza degli italiani, ma che certamente non rientra nel ristretto ambito delle attività strettamente necessarie per il futuro del Paese.
Ha perfettamente ragione il ministro Speranza, che qualche giorno fa ha ricordato come, a fronte di 400 morti al giorno, la ripresa del campionato non potesse essere considerata una priorità per la nazione. Ci mancherebbe altro. Tuttavia, non si può nemmeno derubricare la questione a un capriccio di scarsa rilevanza, in quanto il calcio vale circa il 7% del Pil italiano, versa ogni anno 1,2 miliardi di euro all’erario e, considerando l’indotto, dà lavoro a circa 40mila aziende e quasi 100mila persone tra dipendenti delle società (diversi dei quali sono già in cassa integrazione), professionisti del settore, giornalisti, consulenti del marketing e operatori del merchandising.
A questi dobbiamo aggiungere i calciatori delle serie inferiori, lontanissimi dai livelli non solo dai 31 milioni netti annui di Cristiano Ronaldo (il più pagato in Italia), ma anche dai 300mila euro di Pinsoglio, terzo portiere della Juventus. Man mano che ci si allontana dai riflettori della Serie A, scendono gli stipendi e salgono le possibilità di non riceverli regolarmente. È questo che sollecita una riflessione più approfondita sul tema, perché la mancata ripresa della stagione inevitabilmente si abbatterebbe su questi lavoratori, che rappresentano la maggioranza. Oltre allo squilibrio determinato da queste sperequazioni, c’è anche quello più complessivo di un sistema che assomiglia a un gigante dai piedi d’argilla. Si può permettere di sostenere spese folli fino a quando è foraggiato dai diritti televisivi, ma se questi vengono meno ha solo due possibilità: o c’è una proprietà che ripiana (cosa sempre meno frequente) o si va a gambe all’aria. I soldi provenienti dalle televisioni rappresentano circa il 50-60% delle entrate delle società che, non solo in Italia, li usano anche come leva di credito per operare sul calciomercato.
Il lockdown ha portato alla luce il problema. Le televisioni hanno acquistato i diritti di partite che non si sono disputate e quindi hanno presentato il conto, sotto forma di un robusto sconto per la prossima stagione: 210 milioni se in qualche modo i campionati vengono portati alla fine e addirittura 440 in caso di interruzione definitiva, come peraltro è già successo al campionato di calcio olandese e a quelli di diversi altri sport, anche in Italia. Una mazzata del genere metterebbe in ginocchio diversi club, alcuni dei quali destinati a fallire, e in generale un movimento che negli ultimi anni aveva recuperato terreno rispetto ai principali competitor europei. Questo ha portato molti presidenti ad accodarsi a Claudio Lotito, che non vede l’ora di tornare in campo perché ha un solo punto di distacco dalla Juventus e crede nelle chance della sua Lazio di vincere lo scudetto.
Inizialmente ha soffiato sul fuoco della ripartenza anche la Uefa, che dopo aver redarguito la federazione olandese per la sua fuga in avanti ha fatto aleggiare lo spettro dell’esclusione dalle prossime coppe europee per quei Paesi che non avessero portato a termine i rispettivi campionati. Con la stessa lentezza mostrata nel fermare i tornei all’esplosione della pandemia, il governo del calcio europeo ha poi rivisto la propria posizione, ammettendo la possibilità che – in caso la ripresa non fosse possibile – la qualificazione alle coppe avverrebbe sulla base della classifica attuale, benché incompleta, scartando l’ipotesi avanzata da alcuni che invece si basava sul ranking. La differenza non è da poco. Premiando i risultati sul campo, in caso di stop della Serie A andrebbero in Champions Juventus, Lazio, Inter e Atalanta, mentre il criterio del blasone avrebbe invece penalizzato Inter e Atalanta, a favore di Roma e Napoli. Chiarito questo aspetto, l’unico tema del quale discutere è quindi la necessità economica che, per quanto pressante, a oggi non giustifica il fatto che il campionato riprenda.
Un primo aspetto, non trascurabile, è il fatto che la conclusione del torneo dovrebbe per forza avvenire a porte chiuse, istituzionalizzando quella sensazione posticcia che abbiamo già assaporato varie volte, fino all’ultimo Juventus-Inter. Tale sacrificio sarebbe anche accettabile, se comportasse una sensibile riduzione del rischio, ma non è questo il caso. Anche lasciando fuori i tifosi, ogni partita comporterebbe comunque la presenza di alcune centinaia di persone tra inservienti, operatori televisivi, staff sanitari e, ovviamente, calciatori. Trattandosi di uno sport di contatto, non è possibile praticarlo senza il rischio di contagio. In Germania, dribblando il senso del ridicolo, hanno proposto di dotare i giocatori di mascherine da cambiare ogni 15 minuti: già è faticoso respirare quando si va a fare la spesa in giornate particolarmente calde, figuratevi come lo sarebbe per atleti di questo livello.
In Italia, il protocollo sanitario presentato dalla Federazione non ha certo entusiasmato i medici sociali: 17 su 20 hanno scritto le proprie controdeduzioni, considerando alcune misure perfettibili e altre proprio inapplicabili. Pur affermando di aver già preso in esame le obiezioni ricevute, la Figc ha dovuto ammettere che le scelte prospettate sono quelle che “danno più garanzie per la tutela della salute nel contesto storico attuale e dei prossimi giorni/settimane. Questo perché, per onestà intellettuale, bisogna precisare che un rischio zero ad oggi non esiste nè si potrà dire se esisterà mai“. Tra le misure preventive proposte c’è l’esecuzione ripetuta di tamponi agli atleti, ma è veramente difficile accettare una soluzione del genere, quando ancora non abbiamo test a sufficienza per le categorie a rischio (medici, infermieri e anziani nelle case di riposo) e tantomeno per le indagini estese sulla popolazione asintomatica, che invece sarebbero fondamentali!
Anche nel resto d’Europa il ritorno in campo è fondamentale per gli equilibri economici. La Bundesliga sta per ripartire, ma in Germania ci sono stati finora 5.622 morti per Coronavirus (a fronte dei 26.644 in Italia) e il tasso di contagio appare da tempo sotto controllo. In Inghilterra siamo oltre 17.000 morti e il ritorno della Premier League non dovrebbe avvenire prima del 4 giugno, ma siamo comunque ben distanti dal dato italiano e soprattutto lombardo. Non dimentichiamo che la Lombardia, purtroppo un caso a se’ sul piano epidemiologico, esprime ben quattro delle 20 squadre della Serie A, la quale annovera solo tre formazioni basate a sud di Roma, dove il virus è meno diffuso.
In Spagna e Francia, dove la situazione è più simile alla nostra, non ci sono ancora date fisse. Pur avendo già deciso di sfondare la deadline del 30 giugno, quando solitamente finiscono le stagioni e scadono i contratti, il tempo stringe. Giocare d’estate consentirebbe di dare anche una sorta di consolazione per i tanti appassionati che dovranno rinunciare alle prossime ferie, ma questo non può certo prescindere dalla soluzione dei problemi irrisolti. Oltretutto, durante l’estate bisogna anche recuperare la parte rimanente di Champions ed Europa League, economicamente ancora più redditizie. Andare troppo in là rischierebbe di compromettere la stagione 2020/21, che dovrà concludersi in tempo per consentire di disputare gli Europei in programma quest’anno e rinviati al prossimo.
Quindi, o in zona Cesarini si trovano delle soluzioni in grado di contenere il rischio entro limiti ragionevoli, oppure bisognerà fare uno sforzo di realismo e mandare a monte il campionato. Lo scudetto non dovrebbe essere assegnato, le qualificazioni alle coppe seguirebbero la classifica attuale, come già anticipato dall’Uefa, e si potrebbe derogare alle retrocessioni, portando la prossima Serie A a 22 squadre per non penalizzare Benevento e Crotone, che ad oggi avrebbero conquistato la promozione sul campo. Il 4 maggio il Paese dovrà cominciare una fase nuova, accettando una sfida non priva di rischi. Il pallone può attendere.