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Italia, la penisola dell’ingiustizia: perché le disuguaglianze sono sempre più profonde (di D. De Masi)

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Ai disoccupati viene sempre assicurato che troveranno lavoro appena ci sarà la crescita. Ma il Pil non aumenta mai. E tutto resta com’è

1867. Marx pubblica il primo libro del Capitale in cui scrive: «L’accumulazione di miseria è proporzionata all’accumulazione di capitale. L’accumulazione di ricchezza all’uno dei poli è dunque al tempo stesso accumulazione di miseria, tormento di lavoro, schiavitù, ignoranza e degradazione morale al polo opposto».

1936. Keynes pubblica la Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta in cui scrive: «Per mio conto, ritengo che vi siano giustificazioni sociali e psicologiche di disuguaglianze rilevanti dei redditi e delle ricchezze, ma non di disparità tanto forti quanto quelle oggi esistenti».

2014. Il premio Nobel Joseph Stiglitz pubblica il saggio Perché ci importa la disuguaglianza e cosa si può fare per debellarla in cui scrive: «Più soldi vanno in alto (più di un quinto di tutto il reddito va all’1% al vertice), più persone sono povere in fondo alla scala sociale e la classe media – che è stata a lungo la forza centrale della nostra società – vede stagnare il proprio reddito».

2017. Trump diventa presidente degli Stati Uniti. Il reddito della famiglia media americana, al netto dell’inflazione, è minore di quanto fosse trent’anni prima; la metà della popolazione non è in grado di affrontare spese mediche impreviste; un terzo non riesce ad arrivare a fine mese. Venti milioni di americani vivono in “povertà assoluta”, con un reddito inferiore a 12.000 dollari per mantenere quattro persone; quasi due milioni di bambini dormono in ricoveri per senzatetto o in alloggi d’emergenza. Al capo opposto della società, su 534 congressisti, 268 dichiarano un reddito netto maggiore o uguale a un milione di dollari; il reddito del ministro dell’Istruzione ammonta a 5,1 miliardi, quello del presidente ammonta a 3,7 miliardi di dollari.

2022. L’Inps pubblica il suo XXI Rapporto annuale in cui certifica che dal 2007 a oggi i cittadini italiani in povertà assoluta sono quasi triplicati passando da 1,8 a 5,6 milioni, cioè dal 3,1 al 9% della popolazione. I bambini poveri sono più che triplicati raggiungendo 1,3 milioni. Se si sommano le persone in povertà assoluta a quelle in povertà relativa, si arriva a 14 milioni. Su 18,2 milioni di lavoratori dipendenti, solo 9,8 milioni hanno lavorato tutto l’anno; 3 milioni sono rimasti in cassa integrazione; 4,3 milioni vivono con meno di mille euro al mese e le donne, quando lavorano, mediamente incassano in un anno 4.000 euro meno degli uomini; quasi la metà lavora part-time e quasi sempre è involontario.

Dunque, in 155 anni la distribuzione della ricchezza è rimasta iniqua e, di conseguenza, è rimasta ingiusta anche la distribuzione del lavoro, del sapere, del potere, delle opportunità e delle tutele. Persino le disgrazie hanno sortito effetti opposti tra i privilegiati e gli svantaggiati. Nei primi giorni dell’agosto 2011 vi fu una tempesta finanziaria che gettò nella disperazione migliaia di piccoli imprenditori; negli stessi giorni, scommettendo sul declassamento del debito sovrano Usa, il finanziere George Soros guadagnò una somma stimata intorno al miliardo di dollari. Dieci anni dopo, durante i ventuno mesi di pandemia da Covid-19, i dieci uomini più ricchi del mondo si sono ulteriormente arricchiti raddoppiando la loro ricchezza, che è passata da 700 a 1.500 miliardi di dollari. Questo significa che, mentre il morbo imperversava, essi guadagnavano 1,3 miliardi al giorno, 15.000 dollari al secondo.

Il Paese più felice del mondo

L’Italia è un Paese ricco. Il suo Pil (2.004 miliardi di dollari) è l’ottavo tra tutti quelli dei 196 Paesi che oggi compongono lo scacchiere mondiale. Il Pil pro-capite medio è di 33.228 dollari. Se ciascun italiano, dalla culla alla bara, ogni anno guadagnasse questa cifra, l’Italia sarebbe il Paese più felice del mondo. Invece, se si passa dalla media astratta alla realtà concreta, ci si rende conto di quanto sia ingiusto il nostro Paese. Docili seguaci del modello americano, anche noi abbiamo fatto del nostro meglio per ottenere che i ricchi fossero sempre più ricchi mentre i poveri fossero sempre più numerosi e sempre più poveri. Si considerino gli anni della grande crisi 2007-2017. All’inizio le dieci famiglie più opulente avevano una ricchezza pari a quella di 3,5 milioni di poveri; alla fine della crisi la loro ricchezza era pari a quella di 6 milioni di poveri. Durante quei dieci anni terribili il patrimonio dei 6 milioni di italiani più ricchi è aumentato del 72%; quello dei 6 milioni di italiani più poveri si è ridotto del 63% e quello della classe media si è ridotto del 15%.

Nello stesso arco di tempo, secondo un’indagine condotta per Banco Alimentare da Giancarlo Rovati e Luca Pesenti dell’Università Cattolica di Milano, è più che raddoppiata la percentuale di italiani che non potevano permettersi almeno ogni due giorni un pasto con una adeguata componente proteica e nella fascia di età inferiore ai 17 anni l’incidenza della povertà è quadruplicata. Nel 2011, per fare fronte alla crisi e «salvare l’Italia dal baratro», l’allora Governo Monti non trovò nulla di meglio che tagliare in tre anni 45 miliardi di pensioni, di servizi alle famiglie, di sanità e di trasporti pubblici.

Oggi il fenomeno inuguaglianza è certificato dalla Caritas che ha appena pubblicato L’anello debole. Rapporto 2022 su povertà e esclusione sociale in Italia. I dati si riferiscono al 2021 e sono stati raccolti tramite la rete Caritas composta da 2.797 centri distribuiti su 192 diocesi che assistono 227.556 persone. L’età media degli assistiti è di 46 anni. Mentre però in passato la maggioranza era composta da anziani, oggi il 47% è composto da persone con meno di 34 anni penalizzate dal mercato del lavoro. Proseguiamo nella vivisezione dell’universo dei poveri così come ci è certificato dalla Caritas. Il 51% di tutti gli assistiti è composto da uomini; il 45% è coniugato; il 65% ha figli. Un milione di bambini su tre è a rischio di povertà; i figli di quattro famiglie povere su dieci soffrono il freddo d’inverno perché vivono in case umide e non riscaldate.

Gli stranieri assistiti (55%) sono più degli italiani (43,5%); ma nel Sud, per la prima volta, i meridionali assistiti (74%) sono molto più degli stranieri. Il 21% degli assistiti sono privi di un’abitazione o possono contare solo su accoglienze provvisorie, sistemazioni precarie o inadeguate. Il 70% sono analfabeti, senza alcun titolo di studio o con la sola licenza elementare o, al massimo, con la licenza media.

Il 47% è composto da disoccupati e inoccupati in cerca di occupazione mentre il 24% è composto da working poor, cioè da persone che versano in stato di massima indigenza pure svolgendo un qualche lavoro. Si tenga presente che tra le persone assistite vi sono molti “non occupabili”: i pensionati, gli inabili al lavoro, le persone con figli ma senza un’adeguata rete di supporto familiare, le persone con disagio mentale e molti homeless. Ma vi sono anche appartenenti alla classe media proletarizzati dalla disoccupazione e spinti nella trappola della povertà. Subito dopo la perdita del lavoro, essi finiscono per perdere la casa e ciò, a sua volta, li getta nell’isolamento sociale e nella depressione. Dalla povertà economica discende la povertà educativa e, nel 30% dei casi, i figli dei nuovi poveri finiscono per abbandonare la scuola, castrandosi così anche dell’ultima speranza di mobilità sociale. Per la prima volta da duecento anni a questa parte, moltissimi giovani sono più poveri della generazione che li ha preceduti, sia dal punto di vista economico che dal punto di vista culturale.

Ai disoccupati viene ogni giorno assicurato che il lavoro arriverà appena ci sarà la crescita ma la crescita non arriva da oltre vent’anni e tutto dimostra che non arriverà neppure nel prossimo decennio. Se pure ci fosse e gli imprenditori avessero più soldi da investire, tutto autorizza a prevedere che li investirebbero nell’acquisto di robot e di Intelligenza Artificiale piuttosto che nell’assunzione di lavoratori in carne e ossa. Ciò significa che le disuguaglianze già scandalose tenderanno ad allargarsi.

Cinque generazioni per riscattarsi

Secondo uno studio condotto dall’Ocse nel 2018 e intitolato Un ascensore sociale rotto? Come promuovere la mobilità sociale, in Italia chi proviene da una famiglia povera, collocata nell’ultimo decile di reddito, avrebbe bisogno di cinque generazioni per raggiungere un livello di reddito medio.

Il Rapporto Caritas dedica la dovuta attenzione alla povertà ereditaria e intergenerazionale per cui molto spesso le condizioni vissute al momento presente dipendono dalle situazioni del passato. Quasi 6 persone su 10 che si rivolgono alla Caritas per chiedere aiuto risultano vivere una condizione di precarietà economica in continuità con quella vissuta dalla propria famiglia d’origine. Del resto già Wright Mills ci aveva fatto constatare che «non solo i figli dei ricchi ereditano la ricchezza con tutti i suoi vantaggi, ma i figli dei poveri ereditano la povertà con tutti i suoi svantaggi».

I figli dei grandi imprenditori e degli alti dirigenti hanno una probabilità di restare nella stessa classe dei loro padri circa 12 volte maggiore delle probabilità che i figli di appartenenti alle classi inferiori hanno di accedervi; i figli dei poveri hanno una probabilità di restare nella stessa classe dei padri circa 7 volte maggiore della probabilità che gli appartenenti alle classi superiori cadano in povertà.

Il rapporto 2020 del World Economic Forum confronta la situazione di 82 Paesi e li classifica in base al rispettivo livello di mobilità sociale. La maggiore fluidità si riscontra nel Nord Europa – Danimarca, Norvegia, Finlandia, Svezia e Islanda – cui vanno aggiunte Olanda, Svizzera, Austria, Belgio e Lussemburgo. L’Italia si colloca al 34esimo posto nella classifica complessiva e addirittura all’ultima posizione rispetto alle altre nazioni europee industrializzate, precedendo solo Croazia, Albania, Bulgaria, Serbia e Grecia.

Ma già una ricerca condotta nel 2016 dalla Banca d’Italia su un campione di 90mila persone aveva dimostrato la scarsa mobilità sociale del nostro Paese sotto tre punti di vista: quello della trasmissione dei livelli di istruzione, dei livelli di reddito e della ricchezza, concludendo che «oggi dunque in maniera più ampia che in passato, le variabili che non sono oggetto di scelta degli individui spiegano il loro successo economico». Con buona pace dei cultori del merito.

Un’altra ricerca citata dal rapporto Caritas – And yet it moves: intergenerational mobility in Italy condotta da Acciarri, Polo e Violante – dimostra l’alta probabilità che in Italia i figli dei ricchi restino ricchi o addirittura si arricchiscano più dei padri e offre dati interessanti sulla differenza tra Nord e Sud. Per esempio a Milano, che si piazza al settimo posto nella graduatoria delle province italiane stilata in termini di mobilità sociale, un giovane piazzato nella classe che comprende il 20% più povero della popolazione ha 22 probabilità su 100 di salire nella classe che comprende il 20% più ricco. A Palermo, che si piazza al 106esimo posto, la probabilità scende all’8%. E la differenza dipende dalle condizioni locali del mercato del lavoro, dalla qualità scolastica (soprattutto della scuola materna), dall’instabilità familiare. Nel Sud sono soprattutto i maschi, i figli primogeniti e coloro che, una volta adulti, emigrano in altre regioni ad avere chance più degli altri.

Infine, una ricerca del 2022, condotta dalla Caritas in 115 diocesi, ha dimostrato almeno tre realtà: l’uguaglianza delle opportunità inizia a scuola; soltanto l’8% dei giovani-adulti con genitori che non hanno completato la scuola secondaria superiore raggiunge un diploma universitario (la media Ocse è del 22%); il 55% degli intervistati dichiara che le possibilità economiche della sua famiglia attuale sono peggiori di quelle della sua famiglia di origine.

Senza una lobby

Ma perché la ricchezza tende ad accentrarsi nelle mani di pochi e a restarvi appiccicata? E perché la povertà fa altrettanto, ma con vaste masse di diseredati? Oggi il piano dell’economia e delle finanze è così inclinato soprattutto perché le politiche neo-liberiste garantiscono alle multinazionali e a pochi super-ricchi di accumulare patrimoni smisurati attraverso l’evasione fiscale, la massimizzazione dei profitti, la riduzione dei salari, l’uso spregiudicato del potere e il ricorso alle lobby per finanziare le campagne elettorali. Ciò consente loro di ottenere leggi su misura soprattutto in termini di deregulation, di concessioni fiscali, di migliori occasioni finanziarie, di maggiori informazioni sulle possibilità di guadagno, di maggiori possibilità di sfuggire ai controlli. Perfino Warren Buffet, uno degli uomini più ricchi del mondo, in un’intervista candidamente confessò: «Io verso solo il 17,4% del mio imponibile; i miei dipendenti fino al 41%. I legislatori si sentono obbligati a salvaguardarci quasi fossimo gufi maculati».

I poveri, invece, sono tartassati e, a differenza dei ricchi, non hanno lobby, come ha acutamente sottolineato il socialista brasiliano Leonel Brizola. Secondo Stiglitz questa situazione esplosiva potrebbe essere corretta solo se le corporation sborsassero la giusta quota di tasse (per anni la Apple ha pagato solo lo 0,005% sui propri utili); se smettessero di indurre i Paesi in cui operano ad abbassare la tassazione degli utili d’impresa; se trattassero i propri dipendenti in modo dignitoso; se non esagerassero nell’elargire dividendi ai loro azionisti (che poi li trasferiscono nel mercato finanziario); se investissero una parte congrua dei profitti sul futuro delle proprie aziende. Oxfam ha calcolato che i super-ricchi africani, trasferendo i loro patrimoni nei paradisi fiscali, sottraggono all’Africa una massa di denaro che sarebbe sufficiente a pagare le cure sanitarie per 4 milioni di bambini e impiegare un numero di insegnanti sufficiente a istruire tutti i ragazzi di quel continente.

In un altro suo libro – La grande frattura – Siglitz fa notare che, poiché tutta la crescita degli ultimi decenni ha giovato a chi stava in cima, la conseguenza peggiore «è che stiamo sprecando le nostre risorse più preziose, le risorse umane, i nostri talenti. Milioni di quelli che stanno al fondo della scala sociale non sono in grado di esprimere il proprio potenziale». La colpa di questo omicidio sociale va accollata ai finanzieri e ai banchieri, perché «esiste un chiaro legame tra la crescente finanziarizzazione delle economie del mondo e la crescita delle disuguaglianze».

Vale la pena di ripetere che finanzieri e banchieri riescono a torcere in loro favore le politiche fiscali tramite l’applicazione lassista delle regole antitrust, ma soprattutto tramite «la manipolazione del sistema finanziario, consentita da una modificazione delle regole comprata e pagata dall’industria finanziaria stessa: uno dei suoi migliori investimenti in assoluto». Ma dietro a questi operatori disonesti hanno tramato i «tanti economisti secondo cui i mercati si autoregolano, fornendo in tal modo il loro sostegno intellettuale al movimento per la deregolamentazione».

Contro-natura

Possiamo attingere da Stiglitz alcune osservazioni su tutto quanto abbiamo rilevato e aggiungerne qualche altra a nostra volta. La forbice crescente tra ricchi e poveri non è un risultato casuale ma effetto di precise decisioni, tanto più perverse quanto più intenzionali. Gran parte dei ricchi piazzati al vertice della piramide non lo sono per merito: ci sono persone ben più meritevoli, come gli scopritori del laser o del transistor, come il premio Nobel Youyou Tu o come l’inventore Nikola Tesla che hanno guadagnato assai meno di coloro che, soprattutto nel settore finanziario, «hanno eccelso nel perseguire la rendita, nell’appropriarsi della ricchezza, nell’ideare come prendersi una fetta più grossa della torta della nazione, piuttosto che aumentare la dimensione di tale torta».

Contrariamente a quanto hanno sostenuto gli economisti Arthur Laffer e Simon Kuznets, la ricchezza accumulata dai ricchi non finisce per sgocciolare (trickle-down) sulla classe media e tantomeno sui poveri. Anzi, andando contro natura, la ricchezza sgocciola dal basso verso l’alto della piramide socio-economica. E se dall’alto verso il basso non sgocciola la ricchezza, sgocciolano però i modelli di vita per cui i meno ricchi tendono a comportarsi come i più ricchi e si indebitano soggiacendo a pratiche di prestito predatorie. I ricchi, come ho già ricordato, finiscono per arricchirsi ulteriormente anche nei periodi di recessione, di guerra e di pandemie.

I posti di lavoro non sono creati dai ricchi ma dalla domanda del mercato. I ricchi, invece, sono bravi nel distruggere posti di lavoro trasferendoli all’estero o sostituendo i lavoratori con i robot e con l’Intelligenza Artificiale. Se l’automazione del lavoro non è accompagnata da una corrispondente riduzione dell’orario, si traduce fatalmente in disoccupazione. Altrettanto fatalmente la disuguaglianza economica finisce per tradursi anche in disuguaglianza politica distorcendo la democrazia fino a farne un sistema in cui non vale più “una persona un voto” ma “un dollaro un voto”. La stessa divaricazione tra ricchi e poveri che si crea all’interno di una nazione si produce più o meno con meccanismi analoghi tra i Paesi del Primo e quelli del Terzo Mondo. Il fatto che ai giovani poveri siano interdetti gli studi superiori comporta che questi giovani non arrivano alla laurea, non riescono a guadagnare redditi più alti e quindi non contribuiscono maggiormente al gettito fiscale. L’economia debole comporta un deficit di bilancio con tutto quello che ne consegue in termini di tagli al welfare.

Se il blocco inestricabile tra economia e politica è riuscito a creare tutti questi problemi, la soluzione può venire solo da un mutamento radicale dell’una e dell’altra, capace di restringere la forbice tra ricchi e poveri attraverso il taglio dei privilegi goduti dal vertice della piramide sociale, la decrescita virtuosa e programmata del consumismo, la giusta tassazione dei patrimoni e, prima di tutto, la diffusione delle conoscenze e delle competenze.

Aporofobia

Non solo i ricchi condannano i poveri alla povertà, ma nutrono verso di essi un odio represso e un inconscio rancore. Come ricorda l’ultimo Rapporto Caritas, «da tempo le scienze sociali ci segnalano l’insorgere di sentimenti di aporofobia (dal greco á-poros), che sta a indicare la paura per la povertà e per i poveri. Una paura che può essere anche interpretata come la ripugnanza o l’ostilità davanti al povero o all’indifeso». Il Reddito di cittadinanza (Rdc) ha rappresentato un test molto eloquente di questo fenomeno, come una cartina al tornasole.

Abbiamo visto che i poveri presenti in Italia sono circa 14 milioni e tutto lascia prevedere che nei prossimi mesi il loro numero e la loro condizione si aggraveranno. Per contrastare questo fenomeno e offrire un supporto alle famiglie in condizione disagiata, a partire dal marzo 2019 è stato introdotto il Rdc come misura di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale. Per gli anziani con 67 anni e più è stata prevista una Pensione di cittadinanza. Tra tutti i Paesi dell’Ocse il nostro è stato l’ultimo a introdurre questi due provvedimenti e i sussidi che essi prevedono sono i più bassi di tutti.

Nei primi 36 mesi di applicazione della misura hanno ricevuto il pagamento di almeno una mensilità 2,2 milioni di nuclei familiari per un complesso di 4,8 milioni di persone, per un’erogazione totale di quasi 23 miliardi di euro. I nuclei con presenza di disabili sono stati il 16% di quelli che hanno ricevuto il Rdc e il 31% di quelli che hanno ricevuto la Pensione di cittadinanza. L’importo medio mensile erogato è stato di 548 euro.

Le ricerche effettuate sugli effetti del Rdc hanno dimostrato che l’accesso al beneficio ha migliorato diversi aspetti della vita dei fruitori, compreso il benessere psico-fisico e la fiducia nel futuro. Le donne beneficiarie hanno dimostrato maggiore probabilità di concepire un figlio rispetto alle donne richiedenti ma escluse dal beneficio. Durante la pandemia, dal luglio 2019 al gennaio 2022, i beneficiari hanno avuto minore probabilità di morte rispetto ai non beneficiari.

Questo sussidio, che finalmente inizia a metterci in linea con gli altri Paesi ricchi in fatto di welfare contro la povertà, è stato preceduto e accompagnato da una martellante campagna mediatica di opposizione senza se e senza ma. Giornali, radio, televisioni e social hanno fatto a gara per screditare il provvedimento senza mai approfondirne i termini ma solo esibendo i furbetti capaci di ingannare i controlli per percepire un reddito immeritato e facendo ricorso ad argomentazioni tanto generiche quanto infondate. Intere campagne elettorali sono state impiantate sulla necessità di abolire il Reddito e si è arrivati a invocare un referendum popolare per il suo annullamento.

Nel 1528 Martin Lutero, presentando il Liber vagatorum, distingueva tra i vagabondi fraudolenti che agivano in combutta con il diavolo e i veri mendicanti che meritavano compassione e carità. I nostri arcaici oppositori del Rdc non fanno distinzioni e, senza pietà umana né senso civico, destinano alla fame tutti i poveri indistintamente, nel tacito stereotipo che ciascuno è causa della sua sventura. I partiti di sinistra, i sindacati e persino la Chiesa di Papa Francesco hanno risposto blandamente a questi tentativi di rottamazione o hanno taciuto del tutto.

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