L’interesse umano e la barbarie dell’Occidente (di Elena Basile)

La cultura della pace riconosce l’altro da sé. Per eliminare il gioco a somma zero della guerra dobbiamo superare la dialettica centro-periferia, fondata su un malcelato disprezzo per le civiltà diverse. E sostituire, in un sistema multilaterale armonico, l’utile collettivo al vantaggio particolare
Siamo abituati a considerare la storia umana, in particolare dell’Occidente, come un continuo miglioramento dell’organizzazione della società umana. L’ideologia capitalistica e quella marxista hanno infatti sottolineato come dalle società primitive, dall’impero romano e dalla società medievale all’epoca moderna, grazie alla rivoluzione industriale e alla rivoluzione francese, il progresso identificato con il più diffuso benessere materiale e la protezione dell’individuo contro il potere politico, non ha avuto ostacoli.
Nell’interpretazione capitalistica e marxista, il dominio dell’uomo sulla natura, grazie allo sviluppo della scienza e della tecnica, è stato un fattore essenziale dell’evoluzione umana. Lo storicismo marxista ha voluto vedere nelle conquiste della classe operaia e nel suffragio universale passi in avanti fondamentali, accanto alla divisione dei poteri, nella costituzione delle democrazie europee. Oggi si utilizzano toni trionfalistici per opporre le democrazie occidentali a forme di governo considerate inferiori, in modo manicheo e astorico, come le cosiddette autocrazie. Sembra rinascere in modo ricorrente nella società Occidente-centrica una retorica basata su una inquietante superiorità. Essa ha trovato espressione nella celebrazione dell’impero romano contro i barbari, nelle crociate contro i musulmani, nel colonialismo, nel suprematismo bianco, nelle ideologie razziste hitleriane, nelle politiche anti-migratorie e xenofobe. Naturalmente il riflesso della civiltà occidentale nelle ideologie descritte si è realizzato in forme e gradazioni differenti.
Una visione più complessa della storia umana porta a relativizzare il positivismo di influenza Darwinistica e a demolire la linearità della Storia che influenza visioni deterministe oggi superate. Con le opportune differenziazioni, tra una aberrante ideologia basata sul predominio violento della razza più forte e l’utopia marxista di una società senza classi, incline a dare a ciascuno secondo i suoi bisogni, si deve pur riconoscere nel nazionalsocialismo e nel comunismo una uguale tensione escatologica.
Il cammino dell’Occidente
Il pensiero debole nato come reazione ai totalitarismi novecenteschi, ha inteso porre l’attenzione sul soggetto che crea e dà unità alla realtà multiforme, senza un senso oggettivo. Il filosofo tedesco Walter Benjamin affermava che «un atto di civilizzazione è nello stesso tempo un atto di barbarie». Le conquiste romane erano espressione di una crudeltà e di un’ingiustizia senza limiti ma sono state funzionali alla creazione di una civiltà a cui siamo debitori. Nel 212 d.C. l’editto di Caracalla conferisce la cittadinanza a tutte le comunità dell’impero. Alla legge della forza bruta segue una politica di integrazione. Gli Stati Uniti nascono con lo sterminio dei nativi e il loro sviluppo economico avviene in virtù della messa in schiavitù dei neri. Potremmo continuare per pagine e pagine in quanto gli esempi nella Storia di come la barbarie accompagni la civiltà sono infiniti.
Non c’è nessuna giustificazione dei crimini della storia in questa riflessione. Riconoscere e denunciare le tragedie che all’ombra della più illuminata civilizzazione affliggono gli esseri umani, afferma Edgar Morin, è il compito degli intellettuali, di chiunque voglia dare un contributo al suo tempo. Nella consapevolezza che la storia è frammentata, costellata di spazi-tempo al di fuori di ogni cammino lineare, nell’amara constatazione che non esiste un progresso né un potere buono, possiamo comprendere tuttavia il poetico Mito di Sisifo di Camus. Non ci resta che vivere il nostro tempo e trascinare la pietra sulla montagna per vederla ricadere. Il nostro contributo all’umanesimo democratico riposa nella denuncia della barbarie della nostra civiltà.
Ne “L’ideologia tedesca” del 1846 Marx scriveva: «Gli esseri umani cominciano a distinguersi dagli animali quando producono i loro mezzi di sussistenza. Ciò che essi sono coincide con ciò che e come producono». La centralità della tecnica è considerata alla base dello sviluppo storico e umano. Non molto diversamente Adam Smith celebrava la razionalità dello “Homo economicus”, incline a cercare il proprio utile e che così facendo, grazie alla mitizzazione del mercato, produceva l’utile collettivo.
Il bivio tecnologico
Il cammino dell’Occidente, basato sulla ragione separata dalla vita, sulla tecnica come dominio della natura, sulla tecnologia come strumento di sopraffazione dell’altro, sembrerebbe essere giunto a un bivio. Il progresso economico e scientifico è in una fase estrema nella quale potrebbe mettere a repentaglio il benessere e la stessa sopravvivenza della specie umana. Il capitalismo finanziario produce una divergenza destinata a crescere tra i profitti della società dell’uno per cento e l’altro 99 per cento, con un ceto medio che si impoverisce, con la proletarizzazione della classe lavoratrice e la precarizzazione del lavoro, sacche di miseria si diffondono nelle società affluenti. La mortalità infantile cresce negli Usa e la lunghezza della vita è inferiore a quella dell’Europa. Segnali del declino del capitalismo finanziario che come accade appaiono nella potenza indispensabile prima di materializzarsi in Europa.
L’accelerazione delle conquiste tecnologiche dopo l’invenzione del computer nella seconda metà del Novecento, passando per Internet e il cloud, fino all’intelligenza artificiale, ai Big Data e alla biorobotica, appare senza ostacoli. Le attese in termini di benefici per l’umanità nella lotta alle malattie, alla fatica umana e alle conquiste spaziali sono molteplici. Le minacce sono tuttavia evidenti e vengono sottolineate da diversi studiosi. La creazione di una tecnica con innesti umani e munita di un’intelligenza superiore e di una inclinazione all’auto-conservazione, potrebbe minare la sopravvivenza della specie umana.
Ricordiamo tutti il magnifico film di Stanley Kubrick del 1968 “2001, Odissea nello Spazio”. La prima immagine mostra una scimmia che utilizza un osso come strumento di offesa per conquistare una pozza d’acqua. La scena cambia e ci si ritrova in un’astronave nello spazio. La sfida del computer Hal9000 che si rivolta contro l’uomo, gli contende il potere e lotta per la propria auto-conservazione. Opere di immaginazione e fantascienza ma non lontane dalla realtà in quanto sottolineano le minacce odierne dello sviluppo scientifico, prese molto sul serio da studiosi del calibro di Stephen Hawking che, prima di cessare la sua straordinaria e fisicamente tormentata esistenza, nel suo ultimo libro “Brief Answers to Big Questions” ha unito la sua voce a quella di quanti temono si stia compiendo un errore fatale per l’umanità.
Etica e competenza
In una prima fase l’intelligenza artificiale sotto il controllo dell’essere umano sarà uno strumento in grado di debellare malattie come la sclerosi multipla oppure le minacce climatiche contro le quali la mente umana non ha ancora vinto le sue sfide. Sarà un mezzo potente per una crescita tecnologica a nostro beneficio. Eppure il potenziamento dell’intelligenza artificiale potrà scalzare gli esseri umani dal controllo della tecnica. Non si tratta, secondo Hawking, di inserire precetti etici nella macchina. Non calpestiamo le formiche perché siamo degli odiatori di formiche, afferma scherzosamente lo scienziato, neanche ce ne accorgiamo, in quanto apparteniamo a un’intelligenza superiore. Non è questione di etica ma di competenza. Non basterà disinnescare la presa. Non saremo in controllo perché possiamo interrompere l’elettricità di cui vive la macchina. Con un paragone incisivo Hawking immagina un umano che chiede al computer se Dio esiste e la macchina gli risponde: «Ora sì, esiste» e si rende indipendente dalla corrente elettrica.
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Si tratta, è vero, di immagini per il momento visionarie e non realistiche. Eppure non si possono trascurare i moniti di un uomo che ha dedicato alla ricerca tutta la sua vita, di uno scienziato ateo che con le sue ricerche astronomiche ha infuso nei suoi discepoli e lettori l’entusiasmo di Prometeo, celebrando l’ingegno e la curiosità umana.
Il paradigma della guerra
Siamo tuttavia consapevoli di una rottura manifestatasi nel cammino del genere umano e se vogliamo nella storia di un Occidente legato, molto più di altre civiltà e universi culturali, alla ragione illuministica, utilitaria, tecnologica, separata dalla complessità del pensiero umano. Ritornano alla mente i filosofi della scuola di Francoforte, il Maestro Adorno, e i loro profetici avvertimenti sulla necessità di una ragione collegata all’immaginazione, al sentimento, ai meccanismi del pensiero che esulano dall’utile personale o dal desiderio di sopraffazione.
Bisogna in altre parole cambiare il paradigma della modernità che nella ragione tecnica e separata dalla vita ha portato l’umanità di fronte alle catastrofi, nucleare, climatica, robotica, allontanandola dall’umanesimo, dalla sua stessa umanità e mettendone a repentaglio la sopravvivenza.
La modernità è stata plasmata dal modello Westfaliano che ha avuto grande influenza sulle concezioni occidentali del diritto e della politica. Ricordiamo Hobbes, uno dei maestri del pensiero occidentale moderno, che nel “Leviatano” del 1651 considera la guerra virtuosa in quanto funzionale alla convivenza umana. La violenza dello Stato è legittima, esso ha il monopolio della forza sui propri sudditi e si confronta con il conflitto militare con gli altri Stati sovrani.
Siamo abituati dal pensiero Occidentale, dai romani a Hobbes, a considerare la guerra componente ineliminabile della storia umana. Eppure le armi nucleari hanno risvegliato in noi il timore che un’escalation fuori controllo possa eliminare le stesse finalità per le quali il genere umano si divide e combatte. Nell’impossibilità che esistano dei vincitori risiede la necessità di ricorrere all’arte della pace e di cambiare il paradigma della modernità. È possibile uscire dalla dialettica amico-nemico di Schmitt o dalle teorie di Clausewitz che considera la guerra la continuazione della politica con altri mezzi?
Le ragioni della pace
Al fine di evitare che la pace sia solo l’intervallo tra due guerre bisogna concepire un’architettura sovranazionale e sostituire una dialettica cooperativa alla competizione che non può non basarsi su una dimensione economica e valoriale. La riforma del multilateralismo resta essenziale. Il riconoscimento che le sfide odierne, climatiche e sanitarie, i bisogni economici e sociali della popolazione mondiale superano la sfera statale e nazionale potrebbe rendere la pace la “conditio sine qua non” della politica.
Per eliminare il gioco a somma zero e individuare «win-win solutions» (soluzioni vantaggiose per tutti, ndr) bisogna tuttavia passare dal falso universalismo occidentale basato sul disconoscimento di culture differenti. Sarebbe essenziale superare la dialettica centro-periferia, fondata su un mal-mascherato disprezzo delle civiltà differenti. La cultura della pace riconosce l’altro da sé, evita i conflitti sulla base della sintesi dei vari processi di creazione di senso. L’interesse umano e collettivo potrebbe, in un sistema multilaterale armonico, prendere il posto del vantaggio particolare. L’abitudine mentale a paradigmi differenti ci insegna il cammino verso il superamento del tragico destino delle potenze naturalmente competitive e inclini ad aumentare il proprio potere a prezzo di conflitti ricorrenti.