Le occasioni perdute e la speranza del quarto capitalismo (di R. Gianola)
Le privatizzazioni industriali sono state un fallimento quasi totale della grande imprenditoria. Intanto abbiamo perso eccellenze come Parmalat. Solo i colossi pubblici resistono. E poche multinazionali tascabili. È ora di pensare a una politica industriale per il sistema-Italia
All’inizio del nuovo millennio scoppiò in Italia una polemica, che durò a lungo, sullo stato del nostro capitalismo, sulle condizioni della grande industria. Nell’epoca del berlusconismo trionfante si aprì una discussione innestata da un’analisi della Cgil che parlava di “declino” del nostro sistema economico a causa delle scelte delle imprese che privilegiavano un modello “basso” di sviluppo, con scarsi investimenti, poca innovazione, riduzione dei diritti dei lavoratori e compressione dei salari. Era la stagione della profonda crisi della Fiat e di alcune importanti privatizzazioni di gruppi industriali pubblici che invece di dare nuova forza alla crescita e all’ammodernamento del sistema produttivo portarono al fallimento di ambiziosi progetti.
Nel 1997 lo Stato lasciò il gruppo Telecom al mercato e a un “nocciolino duro” di azionisti privati capeggiati dalla famiglia Agnelli che, tuttavia, non compresero il valore di un’impresa straordinaria. Seguì la scalata dei capitali di provincia guidati dalla vecchia Olivetti, poi toccò alla Pirelli e ai Benetton, quindi agli spagnoli di Telefonica e alla francese Vivendi. Oggi il governo decide di riprendere, e paga, la rete strategica di telecomunicazioni in alleanza con il fondo americano KKR. La famiglia Benetton prese dalla mano pubblica la società Autostrade incassando poi miliardi di dividendi fino alla strage del Ponte Morandi e finendo nel “merdaio” (citazione di Alessandro Benetton, intercettato nell’inchiesta di Genova) di una gestione delinquenziale. Lo Stato ha ricomprato Autostrade e i Benetton contano i miliardi e fanno i maglioncini. Tra le perle delle privatizzazioni industriali va ricordata quella della siderurgia: Emilio Riva rilevò l’Ilva con una trattativa privata con lo Stato. “È come se un topolino mangiasse un elefante”, si disse allora. E, infatti, scappato Riva con il malloppo e senza aver bonificato nulla, subentrato il gigante Arcelor-Mittal, ora siamo sulla soglia della chiusura se il denaro pubblico non farà da salvatore. Le privatizzazioni industriali sono state un fallimento quasi totale della grande imprenditoria privata (solo la cessione della Dalmine al gruppo Rocca ha prodotto risultati apprezzabili) e, in aggiunta, ci siamo lasciati sfilare eccellenze come Parmalat salvata e risanata, con 2 miliardi di liquidità in cassa, finita ai francesi di Lactalis, fin troppo riservati.
Negli ultimi trent’anni, tuttavia, l’Italia industriale si è difesa grazie alla solidità di alcuni gruppi pubblici (Eni, Enel, Terna, Fincantieri, Leonardo, STMicroelectronics) e per il ruolo sempre più rilevante delle piccole-medie imprese, dei distretti industriali, cioè di quei territori socialmente ed economicamente omogenei nei quali aziende famigliari, spesso di piccole dimensioni, con pochi capitali, creano e producono beni di qualità, integrando produzione e fornitori. Anche la concorrenza di nuovi protagonisti internazionali come Cina, Vietnam o India, pur creando difficoltà, ha accentuato l’attitudine competitiva di queste imprese né grandi né piccole, tantomeno pubbliche, espressione di quello che viene chiamato il quarto capitalismo. Questa metamorfosi offre una prospettiva diversa, tanto che se oggi siamo ancora la seconda manifattura in Europa dopo la Germania lo dobbiamo ai distretti e a queste originali imprese che riescono a farsi strada in un contesto difficile.
In questi anni si sono affermate alcune multinazionali tascabili come Mapei (prodotti per l’edilizia) e Brembo (freni), altre aziende di successo come Primaindustrie (tecnologie laser), Ima (macchine per il confezionamento), Dompè (biotecnologie) e Dallara (carrozzerie in carbonio). Ma ce ne sono altre partite nei distretti a testimonianza della vitalità e della vocazione industriale di questo capitalismo di territorio. Certo bisognerebbe trovare il modo di spingere il sistema-Italia, dal governo fino alla scuola passando dalla burocrazia, a mantenere in piena attività il motore dell’economia, magari tornando a pensare a una vera politica industriale, a intervenire per non perdere imprese, interessi, lavoro.