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Un altro disastro (ambientale) firmato M5S: tutte le tappe che hanno portato Taranto nell’abisso

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C’è una data che, in un solo colpo, ha cambiato per sempre la storia del Movimento 5 Stelle, dell’Ilva, dell’acciaieria in Italia e dello stesso Luigi Di Maio: il 7 settembre 2018.

Quel giorno l’allora ministro allo Sviluppo economico del governo gialloverde esce dal ministero e, di fronte a un plotone di telecamere, annuncia il via libera all’accordo tra governo, sindacati e Arcelor Mittal per il salvataggio dell’Ilva e di oltre 10mila posti di lavoro.

È una bomba politica destinata a spaccare in due l’opinione pubblica, interna ed esterna al Movimento. Per migliaia di tarantini, ambientalisti e grillini duri e puri quell’accordo è un tradimento a tutte le promesse fatte in campagna elettorale – su tutte le chiusura e la riconversione dell’Ilva senza se e senza ma – che hanno portato Di Maio & C. a sbancare in Puglia, con punte di oltre il 60% proprio a Taranto.

Dall’altra parte, piovono elogi e complimenti bipartisan da due mondi – quello del sindacato e degli industriali – tradizionalmente ostili al M5S e alla sua politica decrescetista. Lo stesso predecessore Carlo Calenda gli riconosce una sostanziale continuità, pur rimproverandogli una perdita di lavoro rispetto ai precedenti accordi preventivi.

Sembra la fine, e in realtà è solo l’inizio di un anno vissuto pericolosamente, con un Di Maio tra l’incudine delle promesse tradite e il martello di una politica industriale scritta da altri e di cui si ritrova ad essere mero esecutore materiale, mentre via via il consenso del Movimento 5 Stelle sprofonda alla stessa velocità con la quale crolla la sua credibilità di leader.

Assediato dalle critiche interne e ossessionato dai sondaggi, Luigi Di Maio avvia una nuova, personalissima, stagione industriale: quella del pendolino. Pericolosamente in bilico tra un accordo siglato che altri rivendicherebbero come un successo straordinario e che, invece, non compare mai nella comunicazione grillina, e un’improbabile quanto tardiva rivergination ambientale.

Con l’unico risultato di diventare un pessimo paladino di entrambe le cause. A novembre 2018 Arcelor Mittal s’insedia in affitto negli stabilimenti di Taranto e Genova. Ma è chiaro da subito a tutti che si tratta di un matrimonio di comodo, fragile e senza futuro, schiacciato tra una crisi siderurgica galoppante in Italia e in Europa e un governo dilettantesco che considera la politica industriale un elemento di disturbo, più che un asset strategico.

Il traballante patto tiene fino al settembre scorso, quando il governo, che nel frattempo ha cambiato colore e ministro (ora al Mise c’è l’ex capogruppo M5S Stefano Patuanelli), ma non linea, introduce all’interno del decreto Salva imprese l’abolizione dello scudo penale, la norma introdotta nel 2015 dall’allora governo Renzi che consentiva all’azienda di non incorrere in sanzioni penali nel periodo di riconversione dell’impianto previsto dal Piano ambientale.

Una misura, questa, di fronte a cui Arcelor Mittal ha mostrato da subito tutta la sua contrarietà, al punto da paventare la sua stessa rinuncia agli impianti, con tanti saluti anche ai 10.700 posti di lavoro che oggi ballano.

Parole a cui ieri sono seguiti i fatti. Con l’entrata in vigore ufficiale della norma in questi giorni, il colosso franco-indiano ha ufficializzato l’addio all’Italia, sfruttando un cavillo nell’accordo col governo del settembre scorso che permetteva alla multinazionale di recedere dal contratto in qualsiasi momento qualora – si legge – “un nuovo provvedimento legislativo incidesse sul piano ambientale dello stabilimento di Taranto in misura tale da rendere impossibile la sua gestione o l’attuazione del piano industriale”. Esattamente quello che è accaduto in questi giorni.

Insomma, Di Maio ha aperto il buco, Patuanelli l’ha trasformato in voragine. Una doppia frittata, nel giro di 12 mesi, che mette a nudo tutti i limiti del Movimento 5 Stelle quando dagli slogan si passa alla politica reale.

E oggi Di Maio si ritrova nella imbarazzante condizione di avere dilapidato tutta la sua credibilità tra ambientalisti, grillini della prima ora e No Ilva e, al tempo stesso, ad avere sulla coscienza una bomba sociale e occupazionale che non ha precedenti nella storia recente di questo Paese.

Ecco quello che accade quando apprendisti stregoni del “vaffa” passano dalle agorà e dai gazebo ai tavoli ministeriali, diventando facili prede di management e interessi incrociati che sfruttano a loro vantaggio ogni minimo errore, ogni incertezza, ogni svista da parte di avventurieri della politica.

Dal giorno in cui Di Maio si è insediato, il Mise ha cambiato posizione e politica innumerevoli volte, in alcuni casi nella stessa giornata: nel giro di poche settimane siamo passati dalla chiusura dell’Ilva al salva Ilva.

Ma l’errore più grave e imperdonabile è stata la trattativa che ne è seguita con l’unico privato disponibile sulla piazza, rendendolo da una parte responsabile preventivo della sciagurata gestione ambientale ereditata e dall’altra mettendolo nelle condizioni di ritrattare la propria parola in qualunque momento, senza pagare dazio.

E, infine – capolavoro dei capolavori – creando, con una legge ad hoc, le condizioni perfette per una ritirata. Se non ci fossero di mezzo Di Maio e i grillini, verrebbe quasi da pensare che l’abbiano fatto di proposito.

La realtà, come sempre capita, è molto più drammatica e prosaica: la mancanza di studio, di competenza, di approfondimento ha un prezzo. Altissimo. E prima o poi si paga.

Solo che, come abbiamo sempre temuto, non lo pagheranno solo i 5 Stelle con una rapida e inevitabile estinzione, ma trascinando con sé verso l’abisso Taranto, l’Ilva, gli operai, l’Italia.

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