Il caso Chelsea e i limiti del calcio modello videogiochi
Se fosse stata la squadra di un videogioco, sarebbe stato pressoché impossibile vedere il Chelsea di quest’anno, con tutti i campioni che ha in rosa, all’undicesimo posto del campionato inglese. Tuttavia, la realtà in quest’occasione è risultata ben più cinica, e la squadra londinese si trova nella seconda metà della classifica dopo 28 partite disputate. Un dato pessimo alla luce della recente storia del club, ma ancora più sorprendente se pensiamo che i Blues hanno investito tra il mercato estivo e quello invernale la bellezza di 700 milioni di euro per comprare, a cifre tutt’altro che trascurabili, una serie di campioni e giovani promesse.
Ma a cosa ha portato questa rosa da videogioco in un campionato, quello inglese, dove i club hanno una disponibilità economica nettamente superiore a quella di qualsiasi altro Paese? Sarà la squadra a fare i conti con ciò che non ha funzionato, ma ci sono questioni più ampie che possiamo notare anche noi, e che ci mostrano come il tentativo di spettacolarizzazione del calcio cui si assiste progressivamente da una ventina d’anni a questa parte non ha cambiato il principio per cui la palla è rotonda e, al di là di chi sia il più forte sulla carta, continua a vincere chi segna un goal in più dell’avversario.
Da decenni a contendersi le maggiori competizioni europee sono un numero sempre più limitato di club in grado di compiere importanti investimenti, in un percorso culminato con la proposta di istituire la Superlega. Dietro questa proposta si celava soprattutto la volontà di rendere il calcio un evento sempre più simile a un videogioco, trasformando alcune delle sfide tra campioni che giocano in Paesi diversi, eventi oggi relativamente rari, in partite abituali, come si può tranquillamente fare di fronte a una console.
Ma gli appassionati di videogiochi sanno anche quanto possa risultare intrigante, joystick in mano, mettere nella stessa squadra alcuni tra i più grandi campioni al mondo. Non è un caso che la prima squadra a provarci fu il Real Madrid dei primi anni 2000, un periodo in cui i videogiochi diventavano sempre più diffusi, che inaugurò la politica dei “Galacticos”, in cui cercò di mettere insieme una sorta di “dream team”: arrivarono Figo e Zidane, e con loro la Champions del 2002. Poi arrivarono Ronaldo, Beckham e Owen, ma l’impresa non fu replicata.
Lo sa ancora meglio il Paris Saint Germain, che ha recentemente fatto vestire la stessa maglia a Messi, Neymar e Mbappé: un tridente dei sogni che tuttavia non ha portato oltre gli ottavi di Champions la squadra. E oggi lo sa bene anche il Chelsea, che nonostante una spesa fuori portata per la maggior parte dei club, si trova addirittura nella seconda metà della classifica. Forse il calcio offre già uno spettacolo meraviglioso che può portare più risultati della spettacolarizzazione da videogiochi.