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Home » Opinioni

Idee a confronto: 6 modi diversi di dire pace secondo politici, giornalisti e intellettuali

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Perché in molti hanno tante remore ad usare la parola pace? È la domanda che abbiamo rivolto a politici, giornalisti e intellettuali. L'articolo sul nuovo numero del settimanale di The Post Internazionale, in edicola da venerdì 14 ottobre

Cosa vuol dire raggiungere la pace? È uno dei punti su cui si interrogano Pier Luigi Bersani, Milena Gabanelli, Paolo Flores D’Arcais, Domenico De Masi, Marco Tarquinio e Moni Ovadia nelle due pagine di confronto che abbiamo scelto di dedicare alle idee sulla pace, per approfondire e sviscerare le ragioni di tante spaccature tra politici e commentatori sul tema.

Pace vuol dire cacciare l’aggressore, ovvero Putin, o vuol dire smettere di combattere e attuare una resistenza non violenta? Sono diverse le risposte fornite dai nostri intervistati, e lette insieme aiutano forse a capire quanto articolata e complessa sia la questione.

A loro abbiamo chiesto di rispondere in particolare a una domanda: «Pensi che politica, stampa e intellettuali abbiano timore a usare la parola Pace? Se sì, perché? È giusto che sia così?». Se Gabanelli non riscontra alcun timore, Bersani sottolinea che non c’è da stupirsi, perché «non è la prima volta nella storia che chi dichiara pace e invoca il negoziato viene tacciato di intelligenza col nemico o di ingenuità di anima bella». Il professor De Masi, invece, punta sulle differenziazioni a sinistra, per spiegare chi e perché teme di parlare apertamente di pace. A voi la lettura delle varie argomentazioni.

Paolo Flores D’Arcais – Filosofo, direttore di MicroMega

Non vedo affatto questo timore. Anzi. Tutti parlano e straparlano di Pace, tutti vogliono la Pace. La questione cruciale è in cosa consista la pace. Quando una dittatura imperialista invade con il suo esercito una democrazia, e i cittadini di quest’ultima resistono eroicamente malgrado la schiacciante inferiorità bellica, la risposta, per ogni democratico, è adamantina: pace vuol dire il ritiro dell’aggressore entro i suoi confini, ogni altra soluzione sarebbe un premio a chi la pace l’ha violata, sterminando civili, violentando donne, massacrando e torturando. Col Memorandum di Budapest del 1994, l’Ucraina generosamente consegnava le proprie 1.800 ogive nucleari alla Russia, in cambio della solenne garanzia di Russia, Usa e Inghilterra dell’intangibilità dei confini di quel momento (Crimea compresa, dunque).Raramente una situazione è stata più cristallina. C’è un’aggressione e c’è una resistenza che cresce. Ci sarà pace solo quando l’aggressore porrà fine all’aggressione. Altrimenti avverrebbe che «hanno fatto un deserto e lo hanno chiamato pace». “Pace subito! Putin go home!” è l’unico slogan coerente da gridare nelle piazze che vogliano davvero la pace.

Pierluigi Bersani – Politico, ex segretario Pd

Come stupirsi? Non è la prima volta nella storia che chi dichiara pace e invoca il negoziato viene tacciato di intelligenza col nemico o di ingenuità da anima bella. E pensare che qui non si tratta di quel pacifismo assoluto che va sempre rispettato e riconosciuto come voce dell’umanità. Si trattava e si tratta di accompagnare l’aiuto alla resistenza contro l’aggressione con una intenzione sincera, dichiarata e operante: fermare il conflitto, trattare, affidare al negoziato e all’arbitraggio internazionale ciò che le armi hanno lasciato irrisolto. Nemmeno ora si riconosce questa urgenza mentre si affaccia il rischio atomico! L’uso della bomba può essere improbabile ma temerlo non è irragionevole. Esiste forse nella storia l’invenzione di un’arma che non sia stata usata nei successivi cento anni? Non si vede che le potenze atomiche non sono più in grado di vincere una guerra convenzionale e hanno cominciato a dare una definizione “tattica” e “minore” della bomba? È tempo che l’opinione pubblica in occidente si faccia sentire e offra un riferimento a tutti quelli che temono il precipizio, anche all’interno del paese aggressore e in quella metà del mondo che fin qui è stata a guardare.

Marco Tarquinio – Direttore di Avvenire

In questo momento ha preso piede un partito della Guerra che è trasversale, parte da Mosca, passa per diverse capitali europee e arriva fino all’Atlantico, che è contrastato però dal partito della Pace. La guerra per com’è stata scatenata e preparata, con errori, provocazioni e incomprensioni, è una guerra disastrosa che attraverso l’escalation ha visto già dell’indicibile e dell’impensabile. Basta vedere anche quello che sta accadendo anche adesso.

Si è annunciata una volontà da parte della società civile a organizzare, attraverso le realtà associative, comitati, c’è una miriade di iniziative in Italia che va avanti da mesi, poco raccontata dai media mainstream. Ed è cominciata subito la corsa per fare la caricatura di quello che sta accadendo, chiedendo ancora più sangue, dettando copioni, imponendo arruolamenti forzati o cercando di schierare, questo è molto tipico e anche molto grave. Non c’è nessun rispetto per le persone e per le realtà che stanno mettendo del loro per lavorare in una direzione diversa da quella del conflitto. Le persone che vanno in piazza per la pace sono le stesse che animano le reti di solidarietà, che sostengono da anni l’opposizione non violenta in Russia. Questa è una guerra che non vincerà nessuno, la stiamo perdendo tutti, soprattutto noi europei. Serve un lavoro per la Pace e la spinta perché si crei la condizione per un negoziato serio con l’intenzione esatta di limitare i danni, mettendo in atto tutto ciò che si può fare per limitare il peggio. Ma erano cose che si potevano fare anche prima.

Milena Gabanelli – Giornalista e conduttrice

Non conosco nessuno contrario alla pace. Tutti la vogliamo. Nel caso del conflitto in corso cosa significa “pace” di fronte ad un aggressore che ha invaso un Paese sovrano e non ha nessuna intenzione di retrocedere o negoziare? Penso che la politica europea sia stata (almeno finora) piuttosto compatta nel difendere un diritto. Se si cede l’Europa si disfa, tenendo duro rischia di disfarsi per il peso energetico. Quello che è mancato, e che manca, è una consapevolezza di più vasta portata. All’inizio del conflitto avevo lanciato un appello alle grandi multinazionali tecnologiche che gestiscono miliardi di utenti attraverso le piattaforme social, che tanto denaro hanno fatto connettendo gli utenti, ad una chiamata di tutte le piazze del mondo per esercitare una pressione globale su Putin. Il mondo intero dovrebbe esprimere il proprio orrore verso una aggressione che potrebbe avere esiti catastrofici. È ancora possibile, ma penso che soltanto queste piattaforme possano innescare un grande movimento popolare, planetario, per un cessate il fuoco. E quando le armi tacciono, si negozia. Ben sapendo che gli attori in questo teatro sono Putin (l’aggressore), Biden (che consente all’Ucraina di difendersi) e Xi Jinping (l’amico senza limiti di Putin). Un’idea naïf forse, un’idea stupida, perché nessuno l’ha raccolta.

Moni Ovadia – Attore e scrittore

Usare la parola pace – alla politica, agli intellettuali e alla stampa – fa paura perché, detta volgarmente, “tengono famiglia”. Voglio dire che se non fai parte del mainstream, se non ti allinei col pensiero dominante, sarà difficile non venire esclusi dai canali principali, quindi dirigere un giornale, una televisione o un programma. Mi chiedo: la nostra è una stampa libera? Bisogna fare quello che dicono gli americani, non ci si può mettere contro. Non abbiamo solo un problema politico, abbiamo un problema antropologico, cioè i politici sono ormai delle figure misere. È un problema di formazione culturale. Vorrei aggiungere che l’Occidente non ha mai dismesso questa selvaggia russofobia. Detto ciò, se fossi in Russia sarei già in galera. La mia proposta è: per la pace facciamo una grande conferenza internazionale, con osservatori indipendenti Cina, India e Europa. Dobbiamo venirne a capo: la morte dei popoli conta davvero? Lo slogan che ha dominato tutta l’epoca imperialista i romani lo avevano espresso così “si vis pacem para bellum”. Noi dobbiamo entrare nell’epoca del “si vis pacem, para pacem”, fai tutto ciò che può portare al disarmo: soluzioni diplomatiche a oltranza e disarmo progressivo fino a togliere tutte le armi di distruzione di massa. La pace devi volerla, se ti interessano più gli affari allora non la vuoi davvero.

Domenico De Masi – Sociologo

Per me esistono tre sinistre diverse in Italia, come del resto esistono tre destre. C’è la sinistra di governo – il Partito democratico – che alle ultime elezioni ha avuto gli esiti negativi che abbiamo visto. Ciò è dovuto secondo me anche al fatto che il Pd è stato il primo ad adeguarsi alle idee di Draghi, appiattendosi totalmente sulle posizioni atlantiche, e ad acconsentire all’invio di armi in Ucraina. Poi c’è una sinistra che è tale senza dirlo, ovvero il Movimento Cinque Stelle. Loro sono stati molto più cauti sulle armi e ora stanno lanciando una grande manifestazione per la pace. Infine, c’è la sinistra dei vari cespugli – come Rifondazione, Unione Popolare eccetera – che invece è dichiaratamente pacifista. Io mi riconosco con questa terza posizione. Credo che di fronte alla guerra occorra essere pacifisti senza “se” e senza “ma”. A chi dice che gli ucraini avrebbero perso la libertà se non avessero fatto resistenza, rispondo che per me è meglio essere vivi e schiavi, piuttosto che morti, e che per loro sarebbe comunque stato possibile fare un’attività di resistenza non violenta all’invasore.

A cura di Carmen Baffi, Anna Ditta e Lara Tomasetta
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