Circo mediatico: la guerra delle notizie ha travolto l’informazione italiana
Il conflitto in Ucraina sta facendo emergere i peggiori difetti dei media italiani. Lo scontro autoreferenziale fra “pensiero unico” ed “eretici anti-sistema” non favorisce la comprensione degli eventi. E allontana sempre di più i cittadini
Se qualcuno, proveniente da Marte, atterrasse improvvisamente in Italia non sapendo nulla di ciò che sta avvenendo sul pianeta Terra, assistendo al dibattito mediatico comprenderebbe subito che è in corso una guerra. Non però tra Russia e Ucraina, bensì tra giornalisti che si insultano in nome della difesa della democrazia o dell’invito al pensiero complesso. Dai giornali ai talk show fino ai social, il dibattito è polarizzato su due fazioni che badano più ad attaccare l’avversario che ad approfondire i temi nel merito. Chi pare uscirne con le ossa rotte, però, non è nessuna delle due parti in causa, bensì l’informazione.
In tv Federico Rampini accusa il direttore di Avvenire Marco Tarquinio, reo di aver espresso una critica al sistema delle sanzioni, di «lavorare per Putin», al professor Orsini «viene da piangere» perché gli altri non capiscono le sue tesi, lo storico Angelo D’Orsi si chiede perché il giornalista Stefano Cappellini non impari «l’arte del silenzio» mentre sui social è un continuo rimpallo di battutine al vetriolo e di offese reciproche. Ognuno si crede baluardo della verità, ma quasi nessuno la espone con tesi argomentate: del resto per arrivare a conclusioni più profonde di “La Russia ha invaso l’Ucraina” o “Anche l’Occidente ha fatto la guerra in Iraq” ci vogliono studio, ricerca delle fonti, competenze geopolitiche. L’invettiva acchiappa-like è una scorciatoia che garantisce visibilità evitando tutte quelle fatiche, ma che ha come effetto lo svuotamento del dibattito pubblico.
La sostanziale assenza di argomentazioni ha come ricaduta inevitabile l’incapacità di comprendere la posizione altrui, o l’invito esplicito a non esprimerla. Ha fatto sorridere a molti la tesi della direttrice dell’Istituto Affari Internazionali Nathalie Tocci, secondo cui Orsini, in fin dei conti, dovrebbe astenersi dal commentare la guerra perché «non è mai stato in Russia». Così come fa sorridere l’accusa di presenzialismo mediatico rivolta allo stesso docente universitario o a Donatella Di Cesare: perché a trasformarli in icone del “pensiero alternativo” sono stati proprio quelli che passano le giornate a occuparsi di loro, a sbeffeggiarne ogni singolo intervento, invece di controbattere in maniera ragionata, con argomentazioni che pure, a volerle cercare, si troverebbero. L’Orsinismo assurto a religione laica del pluralismo è una stortura di un sistema mediatico che ha introiettato la logica social dello sberleffo, elevandola a paradigma informativo. Non è un caso che a rappresentare posizioni in controtendenza siano, per l’appunto, soltanto i personaggi meglio disposti ad adeguarsi a questo metodo, inclini anch’essi al dileggio e alla rissa da bar sport. La propagazione di una visione sulla guerra impermeabile al confronto fa male a chi cerca di capirci qualcosa e all’informazione stessa. E il giornalismo che prende parte senza spiegare, ma screditando soltanto le tesi altrui, non assolve alla sua funzione e rende i media sempre più auto-referenziali, portatori di una visione delle cose meramente ombelicale.
«Gianni, la questione va riportata in un ambito sobrio e scientifico. Sono anni che si dice (in ambiente scientifico) che questo approccio fa eco a quello che si combatte. Spero sia l’occasione per fare una riflessione seria». Questo tweet lo ha scritto Walter Quattrociocchi, professore alla Sapienza di Roma ed esperto di fama internazionale sulla propagazione dell’informazione (e della disinformazione) in ambienti online. Era una risposta a Gianni Riotta, che si scagliava contro i «disinformatori e putinisti», affermando di non temere i loro attacchi perché «come dicevano a Madrid 1936, Lo primero es ganar la guerra».
Quello che Quattrociocchi rimproverava a Riotta è appunto il fare eco: l’insulto chiama un altro insulto, comunicare da ultras, da qualsiasi parte della barricata, produce una cacofonia di messaggini da avanspettacolo, ma che di certo poco o nulla fanno capire del conflitto in corso.
I meccanismi della comunicazione social sembrano, in questo senso, essere stati pienamente assorbiti dal nostro sistema mediatico. Di “camere dell’eco” ha parlato tra i primi lo studioso Cass Sunstein, descrivendo proprio quegli ambienti online in cui circolano solo informazioni e opinioni che confermano i propri punti di vista, e che vengono continuamente ripetute e amplificate. Le interpretazioni divergenti non trovano spazio, e questo produce polarizzazione, chiusura ideologica, indisponibilità al confronto. I meccanismi di personalizzazione ed esposizione selettiva ai contenuti, tipici dei social media e condizionati dagli algoritmi, contribuiscono a esacerbare questa dinamica, che però finisce per fagocitare qualsiasi mezzo di informazione, dalla carta stampata alla televisione, secondo un processo definito di “rimediazione”, per cui i vecchi media inglobano caratteristiche e linguaggi di quelli nuovi.
Inevitabile, si dirà. Non proprio, verrebbe da rispondere. Ci sono controesempi virtuosi che dimostrano come il pubblico sappia apprezzare una comunicazione competente, che procede per argomentazioni e che mette nelle condizioni di approfondire, senza ricorrere allo scherno. Il caso Dario Fabbri, che Aldo Grasso ha definito il «watchdog della geopolitica», è lì a testimoniarlo. La sua competenza e autorevolezza nelle dirette televisive lo hanno reso popolare anche in rete. Su Twitter ha quasi 50mila follower, ma scorrendo il suo profilo non ci si imbatte mai nella denigrazione delle tesi altrui, nella battuta mordace, nel sarcasmo a buon mercato. Se poi si va a fare un giro sui commenti, è un profluvio di lodi e di ringraziamenti: Fabbri è un balsamo, ci ha fatto finalmente capire qualcosa, è il coro quasi unanime dei follower.
Un modo di procedere sano, che però appare minoritario. Nell’ecosistema mediatico italiano viene infatti spesso mortificato un dibattito che potrebbe essere assai più ricco. Ecco allora qualche esempio di occasioni perse per discutere davvero, casi in cui ci si poteva confrontare a colpi di argomentazioni, ma si è preferito farlo a suon di insulti. Col risultato che nessuno ha capito un bel nulla.
Un primo, lampante esempio di questo non-dibattito è dato dallo scambio avvenuto su La7 a L’Aria che Tira tra il giornalista del Corriere della Sera, Federico Rampini, e il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio. L’ex corrispondente estero de La Repubblica definisce «ignobile» la posizione del numero uno del quotidiano dei vescovi che aveva paragonato gli effetti delle sanzioni economiche sui mercati alimentari globali ai bombardamenti russi. Per Tarquinio, «le vittime in Ucraina valgono tanto quanto i morti di fame in Africa, dove non arriva più il grano». «Le sanzioni non fanno meno male dei bombardamenti», argomenta il direttore di Avvenire. «Non piegano i regimi ma piagano i popoli e sono sempre armi a doppio taglio». A queste dichiarazioni non segue un confronto sugli effetti collaterali delle sanzioni occidentali sull’approvvigionamento alimentare nei Paesi poveri. Si arriva invece allo scontro personale: Rampini insorge accusando l’interlocutore di rivelarsi, con le sue esternazioni, «uno dei tanti che lavorano per Putin». «Quando qualcuno fa un’equivalenza tra sanzioni e bombardamenti rivela da che parte sta», risponde il giornalista del Corriere. «Rampini è uno che scrive ma non legge», ribatte Tarquinio, che poi si sente costretto a elencare «le campagne informative» di Avvenire sulla «falsa democrazia russa» per dimostrare di non essere un sodale del leader del Cremlino (cosa di cui nessuno poteva seriamente dubitare). A chiudere la querelle ci pensa la giornalista e padrona di casa Myrta Merlino, dicendosi certa che Rampini non avesse intenzione di mettere in dubbio l’integrità del direttore del quotidiano dei vescovi. Poi via con la pubblicità.
Il problema del rialzo dei prezzi dei cereali sui mercati internazionali, che sta penalizzando le nazioni più povere del mondo, resta così sullo sfondo di un battibecco a favor di telecamere. Ma la questione è reale e avrebbe meritato ben altro approfondimento: Russia e Ucraina esportano insieme più di un quarto del grano mondiale. Molti Paesi in Nord Africa e Medio Oriente dipendono dai cereali importati da queste due nazioni ma le forze armate di Putin hanno bloccato i porti ucraini e le sanzioni finanziarie imposte dall’Occidente ostacolano l’export russo. La situazione – come denunciano le Nazioni Unite – è particolarmente drammatica per l’Africa orientale, già reduce da tre anni di intensa siccità. Secondo il Wfp infatti Sudan, Kenya, Etiopia, Somalia e Sud Sudan subiranno le peggiori ricadute del conflitto in termini di accesso e disponibilità di cibo a causa di un incremento medio dei prezzi del 23 per cento annuo (con picchi del 92 per cento per Khartoum). Non solo: stando ai dati della Fao, se la guerra dovesse provocare una prolungata diminuzione delle esportazioni di materie prime alimentari da Kiev e Mosca il numero di persone denutrite a livello globale potrebbe aumentare tra gli 8 e i 13 milioni. A questi dati un ipotetico interlocutore avrebbe potuto obiettare che, come certificato dalla stessa Fao, l’aumento dei prezzi sui mercati alimentari globali era già in corso dal 2020 e che le sanzioni occidentali, obbligate dall’aggressione russa che ha azzerato l’export ucraino, hanno tutt’al più peggiorato una situazione già di per sé deteriorata per la pandemia, la povertà e i cambiamenti climatici. Tuttavia nello scambio tra Rampini e Tarquinio non c’è spazio per questo genere di confronto, che avrebbe certo arricchito il dibattito, e alla fine ai telespettatori (e ai giornali) rimane solo il ricordo delle offese reciproche.
I temi che potrebbero essere oggetto di discussione e che invece fanno semplicemente da sfondo alle liti in tv non si fermano certo al diverbio occorso a L’aria che tira. Il caso più eclatante è quello del professor Alessandro Orsini, diventato suo malgrado un baluardo del “pensiero alternativo”. Con le sue (contestate) tesi ha sconvolto più di uno studio televisivo, raccogliendo tanti insulti ma anche una buona quota di sostenitori. Un fenomeno di per sé esemplificativo del problema, visto che il docente della Luiss si limita a proporre analisi – condivisibili o meno – e, per sua stessa ammissione, non deve né vuole rappresentare altro che il proprio pensiero. Ma nella dinamica dei talk show il docente universitario finisce per trovarsi al centro di polemiche che scadono nell’attacco personale, a cui nella foga dialettica neanche Orsini si sottrae. L’accusa di essere filo-putiniano, che più volte ha costretto il professore a ripetere il mantra del sostegno agli ucraini e della fedeltà ai valori dell’Occidente (un’auto-imposizione figlia di un pessimo clima mediatico), ha oscurato l’approfondimento di alcune sue esternazioni, almeno nel consesso televisivo.
Prima fra tutte la proposta di collegare le sanzioni contro Mosca al numero di vittime registrate tra i minori ucraini, sulla base di quanto accaduto con l’Arabia Saudita in Yemen tra il 2016 e il 2020. La tesi di Orsini, smentita dalle analisi del ricercatore dell’Ispi Matteo Villa, del direttore di Domani Stefano Feltri e da Pagella Politica, si basa sull’inserimento di Riad in una “lista nera” dell’Onu, a cui ha fatto seguito l’istituzione di un organo di indagine saudita sugli effetti dei raid aerei, che avrebbe ridotto il numero di bambini morti sotto i bombardamenti permettendo l’esclusione del regno dalla suddetta black list nel 2020. Un modello da attuare anche nel caso della Russia, secondo il professore. Come sottolineato da Villa, Feltri e da Pagella Politica non c’è però correlazione tra la lista nera dell’Onu, che comunque non produce sanzioni, la creazione della commissione di inchiesta saudita e la diminuzione del numero di minori tra le vittime della guerra in Yemen. Eppure queste considerazioni, ben più utili al pubblico degli scontri personali andati in onda, non hanno trovato molto spazio in tv, a vantaggio degli insulti e degli attacchi contro Orsini.
Ma non finisce qui: anche un altro punto cardine dei ragionamenti del docente universitario potrebbe essere discusso in maniera più approfondita. Più volte il professore ha ricordato come nel corso del 2021 la Nato abbia effettuato «tre gigantesche esercitazioni militari» in Ucraina, vissute al Cremlino come una chiara provocazione. A giugno, luglio e settembre dello scorso anno alcuni Paesi dell’Alleanza hanno effettivamente partecipato, insieme ad altre nazioni, a una serie di importanti manovre militari congiunte con le forze di Kiev. La prima si chiamava “Sea breeze”, è stata condotta tra giugno e luglio nel Mar Nero e, tra osservatori e partecipanti, ha visto l’adesione di 30 Paesi, 5.000 militari, 40 aerei e 32 navi. La seconda esercitazione, denominata “Three swords”, ha invece coinvolto oltre 1.200 soldati e più di 200 veicoli blindati di Usa, Lituania, Polonia e Ucraina e si è svolta a fine luglio nella regione di Leopoli. La terza e ultima, ribattezzata “Rapid trident” è avvenuta ancora in Ucraina occidentale, a Yavoriv, a fine settembre e vi hanno partecipato 6.000 truppe di 15 Paesi. Il Cremlino, come giustamente notato da Orsini, ha criticato le operazioni soprattutto per le dimensioni senza precedenti delle forze impegnate, ma con un’attenta analisi si sarebbe potuto facilmente ribattere che si tratta di manovre ripetute ogni anno (la prima addirittura dal 1997) e che in due casi su tre erano presenti anche nazioni con governi non ostili a Mosca come Brasile (in Sea breeze) e Pakistan (in Three swords e Rapid trident). Un altro fattore poco analizzato nelle discussioni con il docente della Luiss sono i tempi. Le manovre congiunte compiute lo scorso anno dai Paesi occidentali con le forze di Kiev sono successive al primo aumento di truppe russe ai confini ucraini. Già ad aprile 2021 infatti l’attenzione della comunità internazionale si era rivolta alla frontiera tra i due Paesi, dove Mosca aveva cominciato ad ammassare sempre più reparti militari. Secondo un’analisi del Center for Strategic & International Studies (Csis), la portata delle attività condotte nell’area dalle forze russe nella primavera dello scorso anno era pari soltanto a quella registrata tra il 2014 e il 2015, quando le truppe inviate da Mosca avevano appoggiato a vario titolo i disordini in Ucraina orientale, favorendo l’annessione della Crimea e l’insurrezione in Donbass. Tuttavia nessuna di queste obiezioni è stata mossa a Orsini, le cui analisi meriterebbero una discussione seria, e invece i suoi dibattiti sono ricordati prevalentemente per l’asprezza dialettica adottata dai diversi interlocutori. A discapito del pubblico, ovviamente.
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