“Tacciano le armi”: quell’appello che Israele ha dimenticato
"Alla tenera età di 16 anni io imbracciavo un fucile in modo da potermi difendere. Non era il mio sogno, volevo diventare ingegnere idraulico. Fui obbligato a ricorrere alle armi". Iniziava così il celebre discorso con cui Yitzhak Rabin, ex primo ministro di Israele, si rivolse ai suoi interlocutori nel ricevere il Premio Nobel per la pace nel 1994, insieme a Shimon Peres e Yasser Arafat. Un anno dopo quelle parole, Rabin fu assassinato. Era il 4 novembre 1995. Cosa rimane, oggi, di quelle parole?
«Visto che non credo ci sia qualcuno che vincerà mai due volte il Premio Nobel, permettetemi di cogliere l’occasione e dare un tocco personale a questo riconoscimento prestigioso. Nell’età durante la quale la maggior parte dei giovani combatte per scoprire i segreti della matematica o i misteri della Bibbia, nel periodo in cui sbocciano i primi amori. Alla tenera età di sedici anni, io imbracciavo un fucile in modo da potermi difendere. Non era il mio sogno, volevo diventare ingegnere idraulico. Studiavo in una scuola agricola e pensavo che diventare ingegnere idraulico fosse un lavoro importante se vivevi in Medio Oriente e lo penso tutt’ora. Comunque fui obbligato a ricorrere alle armi».
Iniziava così il celebre discorso con cui Yitzhak Rabin, ex primo ministro di Israele, si rivolse ai suoi interlocutori nel ricevere il Premio Nobel per la pace nel 1994, insieme a Shimon Peres e Yasser Arafat, per l’impegno e i risultati raggiunti con gli accordi di Oslo.
Un anno dopo quelle parole, Rabin fu assassinato da un estremista israeliano, lo studente universitario Yigal Amir, proprio nel corso di una manifestazione per la pace. Era il 4 novembre 1995, ventotto anni fa.
Cosa rimane, oggi, di quelle parole pronunciate quasi tre decenni fa? Cosa rimane, nella testa di chi governa Israele, dell’impegno di Rabin a favore della pace? Cosa rimane, tanto in Medio Oriente quanto nella comunità internazionale, del processo di stabilità e giustizia voluto così fortemente da Rabin, Peres, Arafat?
Continuava così il messaggio di Rabin, in occasione di quella celebre manifestazione: «Permettetemi di dire che sono commosso. Mi piacerebbe ringraziare uno ad uno voi che siete qui oggi per prendere posizione contro la violenza e a favore della pace».
«Questo governo, che ho l’onore di guidare insieme al mio amico Shimon Peres, ha deciso di dare una possibilità alla pace. Una pace che risolverà la maggior parte dei problemi di Israele. Sono stato un militare per 27 anni e ho combattuto tanto da non credere ci fosse possibilità per la pace e ora credo che questa possibilità ci sia. Dobbiamo farlo per la salvezza di chi è qui oggi e anche di chi non c’è».
«Sono qui per dimostrarvi che le persone desiderano veramente la pace e si oppongono alla violenza. La violenza distrugge le basi della democrazia di Israele e va condannata e isolata. Questa manifestazione deve mandare un messaggio alla gente di Israele, al popolo ebraico di tutto il mondo, agli arabi di tutto il mondo, al mondo intero. Israele vuole la pace, supporta la pace. E per questo vi ringrazio».
Una possibilità alla pace, diceva Rabin. Una pace che risolverà la maggior parte dei problemi di Israele. Parole che riecheggiano nella storia e che oggi sarebbero drammaticamente utili, anche dopo l’attentato del 7 ottobre. Una condanna totale della violenza, un inno alla speranza perché «i popoli desiderano veramente la pace».
Basterebbe rileggere questo discorso per far sì che tacciano le armi, oggi, in Medio Oriente. A oltre un mese dall’attacco di Hamas, il governo di Israele invece non sembra intenzionato a fermarsi, nonostante il numero di vittime impressionante già causato, tra cui moltissimi bambini.
Nel 2018 un appello firmato da numerosi intellettuali italiani – “Tacciano le armi e si cerchino le vie politiche del dialogo” – chiedeva proprio che Israele deponesse le armi a favore di un dialogo per la pace nella costruzione di una soluzione per due Stati e due popoli. Tra i firmatari, circa 300 persone, figuravano Anna Foa, Wlodek Goldkorn, Helena Janeczek e molti altri ancora.
Come mai oggi, cinque anni più tardi, quell’appello non ha più valore, a maggior ragione alla luce dei tragici avvenimenti di questi giorni? Varrebbe la pena riflettere seriamente sul fatto che nessuna risposta in nome del diritto internazionale potrà mai ottenere giustizia se eseguita con la violenza.