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Home » Opinioni

Quanto ci costerà la vendetta contro Hamas (di Francesco Bascone)

Immagine di copertina
Credit: AP Photo

Israele opprime i palestinesi. La strage del 7 ottobre ricorda la barbarie dell’Isis. Ma non è ora di guardare alle colpe. Meglio meditare sulle conseguenze. In primis, umanitarie. E sul pericolo di una estensione del conflitto. L'analisi dell'ex ambasciatore d’Italia in Serbia, a Cipro e presso l’Osce

Come nel caso dell’Ucraina, il dibattito tende a polarizzarsi fra chi si sente incondizionatamente solidale con il Paese aggredito da un vicino che nega il suo diritto a esistere, e chi «contestualizza» (mettendo in evidenza i torti subiti dalla controparte) a rischio di relativizzare la gravità dell’aggressione. Dando per scontato che Israele opprime la popolazione palestinese e ha da tempo sotterrato la formula dei due Stati, e che il massacro perpetrato da Hamas supera la barbarie dell’Isis, quello che ora deve interessarci sono non le colpe ma le conseguenze.

Il mondo ha il fiato sospeso nell’attesa di conoscere come Israele risolverà il dilemma fra salvare gli ostaggi con un negoziato e far pagare un prezzo altissimo, come ha promesso Netanyahu, per quella che è non una operazione militare ma una azione terroristica di dimensioni senza precedenti.

Progetti di rappresaglia
Ricordiamo che l’attacco alle Torri gemelle costò la vita a un americano su centomila, l’incursione di Hamas del 7 ottobre scorso a un israeliano su meno di diecimila. Se gli Stati Uniti reagirono muovendo guerra non solo ad al-Qaeda ma all’Afghanistan che ospitava Bin Laden e i suoi (una guerra costata oltre duemila caduti e circa ventimila feriti, per non parlare delle vittime afghane), è plausibile che il governo israeliano sia deciso a sacrificare le vite di un certo numero di suoi soldati, e forse persino degli ostaggi, pur di consumare la sua terribile vendetta. E che non si faccia scrupolo di far morire migliaia di civili arabi.

La logica vorrebbe che Israele scateni appunto una rappresaglia sanguinosa (non farlo sarebbe un segno di debolezza e di paura agli occhi dei suoi nemici, Iran in testa) ma non una guerra, da cui ha solo da perdere, soprattutto se combattuta su due fronti. Al riguardo si colgono alcuni segnali inquietanti.

Netanyahu ha minacciato di trasformare tutto il quadro della regione. Pensa a svuotare Gaza dei suoi abitanti, o forse a riprendere il controllo delle città della Cisgiordania (zona A), per poi procedere all’annessione? È pronto a eliminare alla radice la minaccia costituita da Hezbollah lungo la frontiera settentrionale e, se la milizia sciita risponderà con una pioggia di missili, bombardare Damasco? Conta di dissuadere Teheran dall’intervenire brandendo la minaccia nucleare?

Un assegno in bianco?
Gli Stati Uniti avrebbero tutto l’interesse a moderare i suoi progetti di vendetta e di intimidazione, per allontanare il rischio di estensione del conflitto. Ma l’invio di una portaerei non va in quella direzione, anche se inteso come strumento di dissuasione piuttosto che di appoggio tattico. Biden assicura pieno sostegno a Gerusalemme, senza raccomandarle moderazione. La promessa di fornire armi e munizioni (a danno dell’Ucraina) sembra indicare che Washington si aspetti non una dura rappresaglia ma una vera e propria guerra, e non intenda per ora impedirla.

I vertici dell’Unione europea dichiarano che Israele ha il diritto di difendersi. Preso alla lettera è un’ovvietà. Il senso è che Tsahal ha il diritto di punire severamente l’aggressore, o addirittura di eliminare la fonte di future minacce.

Sarebbe più esatto dire che, giuridicamente, Israele ha il diritto di effettuare una rappresaglia purché (grosso modo) proporzionata. Potrebbe però anche sostenere che Gaza non è un “governo di fatto” (un quasi-Stato) bensì un covo di terroristi e invocare il diritto di procedere in auto-tutela, eliminando radicalmente la minaccia. Se invece si considera in guerra, come ha detto Netanyahu, può infliggere danni non proporzionati alla provocazione. Teoricamente sarebbe sempre soggetto al divieto di prendere di mira i civili (devono essere “collateral damage”), ma sappiamo che non ha avuto troppi scrupoli al riguardo in passato, non ne avrà dopo quello che è successo. A meno che non si lasci guidare da quella che è sempre stata una sua priorità, salvare gli ostaggi.

Preoccupano le questioni umanitarie, ma preoccupa almeno altrettanto il pericolo di una estensione del conflitto. Dovrebbe tranquillizzarci la constatazione che chi governa Israele non è pazzo e non può ignorare il pericolo mortale a cui andrebbe incontro.

Due anni fa pensavamo che Putin, per quanto animato da velleità revansciste, fosse un “rational actor” e la guerra fosse perciò improbabile. In effetti non era irrazionale ma ha sbagliato i calcoli. La Russia può permettersi una guerra sbagliata. Israele no.

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