Guerra economica: le sanzioni alla Russia stanno funzionando?
Il conflitto in Ucraina continua, Putin resta al potere e le bollette impazziscono. Kiev però è ancora libera.Il costo delle misure contro Mosca infiamma la campagna elettorale. Ma la loro efficacia dipende dagli obiettivi fissati dalla politica
Doveva crollare in poche settimane, eppure è ancora viva e vegeta. A sette mesi dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina, la Russia non ha subito il tracollo previsto nonostante l’imposizione di sanzioni senza precedenti da parte di Stati Uniti, Unione europea, Regno Unito e altri partner internazionali. Se l’economia non è sprofondata, neanche al Cremlino se la passano poi così male. L’obiettivo dichiarato di fermare il conflitto, impedendo alla Russia di finanziare la guerra, è – per il momento – fallito. Stesso esito per il tanto sperato cambio di regime a Mosca. In compenso, e non era scontato, gran parte dell’Ucraina è ancora libera.
Tuttavia, visti i costi in termini di inflazione e di rialzo dei prezzi energetici è lecito chiedersi se e quanto siano efficaci i provvedimenti adottati finora contro Putin. Tanto che le sanzioni sono ormai oggetto di polemiche in campagna elettorale, eppure la risposta alla domanda se funzionano o no dipende dagli obiettivi fissati proprio dalla politica.
Diamo uno sguardo ai numeri. Ben sette pacchetti di misure contro la Russia e migliaia di suoi cittadini e imprese hanno provocato il congelamento di quasi la metà dei 580 miliardi di dollari delle sue riserve in valuta estera e l’esclusione della maggior parte delle principali banche dal sistema dei pagamenti globali Swift. Gli Usa non acquistano più petrolio russo (non che fossero i migliori clienti di Mosca), mentre la dipendenza dell’Europa dal gas di Putin è in calo, soprattutto in Germania e Italia, i due Paesi relativamente più esposti verso il Cremlino. Ad agosto, il gas russo rappresentava solo il 9,5% dei consumi tedeschi, a fronte di una media del 55% nel 2021. In Italia invece, la percentuale di gas russo sul totale delle importazioni si è attestata a luglio al 18%, più che dimezzata rispetto al 40% di dicembre. Le multinazionali europee e americane stanno lasciando il Paese, i vettori russi non hanno più accesso allo spazio aereo europeo, le transazioni in oro sono limitate, le imprese non possono acquistare nuove tecnologie dall’Occidente e faticano a importare componentistica, semiconduttori e altri semilavorati hi-tech.
Ma allora i provvedimenti adottati contro Mosca stanno funzionando? Per il Cremlino, ovviamente no. Secondo Rosstat, nel primo semestre 2022 il Pil russo è diminuito solo dello 0,4%, mentre nello stesso periodo gli investimenti sono aumentati del 7,8% annuo. A luglio, sempre stando ai dati ufficiali, la disoccupazione si è attestata ai minimi storici al 3,9%. Questo mese la quotazione della divisa nazionale è rimasta nella media degli ultimi sette anni, intorno ai 60 rubli per dollaro, al di sotto dei valori prebellici (e del picco di 150 raggiunto a marzo). Inoltre, l’inflazione – esplosa dopo l’attacco all’Ucraina – comincia a calare: i prezzi al consumo sono in discesa da due mesi. Ma non è tutto oro quello che luccica, nemmeno per le autorità moscovite. A luglio, le vendite al dettaglio sono diminuite dell’8,8% annuo, mentre a giugno Rosstat rilevava un calo del 3,2% dei salari reali e dell’1,2% su base annua della produzione industriale. Tanto che a fine agosto, il primo vicepremier Andrei Belousov ha ammesso che il Pil russo si contrarrà di «più del 2%» nel 2022. Dati ottimistici, anche rispetto alle previsioni del ministero dell’Economia di Mosca, che a metà dello scorso mese stimava per quest’anno una diminuzione del 4,2%, mentre il Fmi prevede ancora un crollo del 6% annuo, comunque al di sotto del -15% calcolato all’inizio delle ostilità. Guardando alle cifre quindi, non è tutto o bianco o nero.
Uno studio pubblicato a luglio dall’Università di Yale ritiene invece che «il ritiro delle grandi aziende e le sanzioni stiano paralizzando l’economia della Russia». Le quasi mille imprese straniere che hanno abbandonato il mercato russo producevano il 40% del Pil nazionale, mentre «la produzione interna si è bloccata e non ha la capacità di sostituire le attività, i prodotti e i talenti perduti». Pur dando credito ai dati di Rosstat, è evidente come alcuni settori economici siano in ginocchio: a luglio solo la produzione automobilistica è diminuita del 58,1% annuo. «L’economia vacilla», si legge nella ricerca, «e non è il momento di frenare» sulle sanzioni. Una previsione condivisa da uno studio pubblicato a giugno dall’Istituto tedesco per gli affari internazionali e la sicurezza (Swp), secondo cui «gli effetti stanno appena iniziando a manifestarsi». A Mosca, dunque, la situazione pare destinata a peggiorare ma questo non vuol dire che le sanzioni funzionino.
«È innegabile che tali misure stiano complicando lo sviluppo russo ma questo non significa che l’obiettivo sia stato raggiunto, anzi», ci spiega, da Mosca, il professor Vincent Ligorio, docente di Relazioni internazionali all’Università presidenziale russa per l’economia nazionale e la funzione pubblica (Ranepa). Il fine delle sanzioni, sottolinea Ligorio, è sempre politico. «L’obiettivo, sin dall’inizio, era un cambio di regime in Russia», aggiunge il docente. «Dal punto di vista politico quindi, l’esito è negativo». Chi sperava di abbattere Putin dall’esterno, nonostante le iniziali manifestazioni di dissenso e i murales contro la guerra apparsi a Mosca, è rimasto deluso. «Qui c’è un detto che si riferisce ai tempi di Napoleone: “Meglio bruciare Mosca”. Ecco, i russi preferiscono questo piuttosto che sottostare a imposizioni non gradite», afferma il docente. Gli effetti economici invece cominciano a farsi sentire: «Il Paese si appresta a una grave recessione», sottolinea Ligorio. «Ma il popolo russo si adatta facilmente: è pronto all’autarchia e fa di necessità virtù».
Un esempio? La fuga delle grandi firme: «Qui nessuno si strappa i capelli perché ha chiuso Zara. Chi vuole ha già trovato un escamotage». All’inizio, rivela, chi poteva si faceva portare i prodotti dall’estero. Con l’aumentare delle restrizioni e la chiusura dei punti vendita, si sono escogitati altri metodi. «I negozi erano ufficialmente chiusi però bastava chiamare un numero di telefono, recarsi sul posto e pagare in contanti», prosegue Ligorio. «Altri marchi cambiano solo denominazione o ricorrono a vendite fittizie tramite scatole cinesi. Altri ancora, persino aziende Usa o francesi, sono ancora aperti». Ma i problemi maggiori riguardano le imprese. «La questione principale è l’accesso alla componentistica e ai ricambi per i macchinari», evidenzia. Un bel problema per un Paese che dipende dall’estero per l’acquisto di tecnologia avanzata: prima della guerra Mosca comprava oltre il 45% dell’hi-tech in Europa, il 21% negli Usa e solo l’11% in Cina. La soluzione, già adottata con successo per limitare le sanzioni del 2014, è sostituire l’import con la produzione nazionale o rivolgersi ad altri fornitori. «A livello di piccola imprenditoria, ad esempio nell’abbigliamento, si stanno sviluppando nuovi marchi», rileva Ligorio. «Anche in altri settori però, soprattutto con le startup e l’informatica: ricordiamo che Telegram è nata in Russia, come la banca online Revolut (L’istituto di credito fa notare a TPI di essere nato da una startup fondata a Londra nel 2015 da due imprenditori britannici, uno di origine russa e l’altro di origine ucraina residenti in Gran Bretagna da 20 anni, ndr)».
Le prospettive restano comunque incerte e anche rivolgersi ad altri Paesi non sarà facile. «Bisognerà vedere come funzionerà il cosiddetto “parallel import”, che sfrutta le triangolazioni con Stati terzi, e soprattutto a che costo», prosegue il docente, che ci fa un altro esempio: «UnionPay ha fatto un passo indietro per non incappare nelle sanzioni perché per la piattaforma cinese il mercato russo era marginale». «Ogni impresa – avverte Ligorio – farà questo genere di valutazioni». Ad ogni modo è già chiaro che le misure adottate contro Mosca non colpiscono la classe dirigente russa ma il ceto medio. Ne sono un esempio gli effetti sulla sanità. «A Mosca mancano determinate medicine di provenienza europea che, se disponibili, hanno prezzi raddoppiati. In altri casi invece, come per i farmaci veterinari, l’accesso è limitato», ci spiega il docente, che ricorda come a marzo girassero voci sulla capacità dei dentisti di continuare a operare in Russia. «A un dentista che conosco, responsabile di una delle migliori cliniche a Mosca, ho chiesto: “Ora chiuderete?”. Mi ha risposto: “No, alzeremo i prezzi”. E così per molti non sarà più accessibile: tanti servizi prima disponibili per la classe media saranno garantiti solo a fasce di reddito più elevate». Le misure adottate contro Putin colpiscono soprattutto chi vive nei centri più sviluppati, dove gli standard di vita sono mediamente più alti e il dissenso è più marcato. «Non colpiscono certo il contadino di Krasnodar», nota Ligorio che, ricordando l’importanza del fattore energetico, si sbilancia in una previsione: «Il tetto al prezzo del gas e del petrolio non funzionerà: Mosca ha già firmato accordi con vari partner come India, Indonesia e persino alcuni Paesi produttori di greggio. Questi comprano a sconto dalla Russia per il loro fabbisogno interno e rivendono il proprio prodotto all’estero a prezzi di mercato». Intanto l’esplosione delle quotazioni continua a favorire il Cremlino, almeno per ora. «Il rialzo dei prezzi ha concesso alla Russia un tesoretto che le permetterà di compensare gli effetti negativi delle sanzioni nei prossimi mesi», conclude il docente. «Ma non certo per gli anni a venire».
Parliamo comunque di cifre enormi: solo nella prima metà dell’anno Mosca ha ricavato 158 miliardi di euro dall’export di petrolio e gas. «Quest’anno dovrebbe aumentare del 30% i ricavi da esportazione di queste materie prime», ci rivela Francesco Sassi, ricercatore in geopolitica dell’energia e analista dei mercati energetici a RIE. «Probabilmente, nel 2022 le vendite di combustibili supereranno il 40% del bilancio nazionale». Più alti sono i prezzi e più si rafforza quella che ormai molti chiamano “la fortezza Russia”. Va detto, sottolinea l’esperto, che il blocco deciso dall’Ue alle importazioni di carbone, greggio e prodotti petroliferi, rispettivamente a dicembre 2022 e febbraio 2023, non ha sortito effetti sui ricavi russi. «Perché sui mercati l’offerta è decisamente inferiore alla domanda, il che spinge naturalmente in alto le quotazioni», aggiunge Sassi. Una situazione poco promettente visto che si parla di imporre un tetto ai prezzi. «In questo momento i venditori hanno maggiore potere, proprio perché la domanda è elevata», sostiene il ricercatore, secondo cui «il price cap potrebbe funzionare se l’offerta di mercato fosse molto alta», dando la possibilità ai sanzionatori di trovare risorse altrove. In questo contesto invece, rischia di essere un flop.
Di certo, non è solo l’Ue a voler superare l’interdipendenza con Mosca. Dopo il blocco del Nord Stream, al Forum di Vladivostok Putin ha confermato un progetto di gasdotto dalla Siberia occidentale alla Cina che, attraverso la Mongolia, giri a Pechino le risorse precedentemente destinate all’Europa. «Non sarà solo uno strumento di politica internazionale e di risposta alle sanzioni, ma un modo per trasformare l’identità russa da Stato eurocentrico a potenza euroasiatica, che faccia da perno energetico dell’intero continente e della Cina, che in 15 anni arriverà a consumare tanto gas naturale quanto l’intera Ue», aggiunge. Un’iniziativa ambiziosa che però richiederà molti anni, mentre nel frattempo le sanzioni mordono. L’Europa consuma 170 miliardi di metri cubi di gas russo all’anno mentre l’attuale capacità di liquefazione del Paese supera di poco le 30 milioni di tonnellate annue (pari a poco più di 41 miliardi di metri cubi). Tradotto: Mosca non può spedire via nave tutto il gas che l’Ue non consuma più tramite tubo. «Le attuali sanzioni hanno rallentato l’evoluzione dell’industria del gnl in Russia, perché Mosca non possiede le tecnologie per costruire grandi impianti di liquefazione», osserva Sassi. Discorso diverso invece per il petrolio, il cui trasporto è più semplice del gas. I citati accordi conclusi dai russi permettono già al Cremlino di vendere greggio a Paesi con grandi capacità di raffinazione come l’India, che poi rivendono il prodotto finito all’Europa, ovviamente con un sovrapprezzo. «La Russia inoltre esporta già i propri volumi petroliferi verso l’Ue attraverso la miscelazione del greggio, la cui tracciabilità è molto complicata», ci spiega il ricercatore. Se infatti una petroliera trasporta il 49% di petrolio russo e il 51% di altri Paesi, può riuscire facilmente a evitare gli effetti delle sanzioni, a tutto vantaggio di Mosca, in barba alle decisioni di Washington e Bruxelles e a danno delle tasche degli europei. Secondo Sassi però, se le misure contro la Russia hanno un loro peso sul rialzo dei prezzi, non sono l’unica causa. «Basta infatti la dichiarazione di un politico appartenente a uno dei principali governi europei, in particolare tedesco, e/o della Commissione Ue, per influenzare l’andamento giornaliero del prezzo del gas naturale», evidenzia l’esperto. Un chiaro segno dell’instabilità dei mercati, di cui la speculazione si alimenta. Il problema più grave riguarda invece la scarsità dell’offerta sul mercato globalizzato del gnl. «Qualsiasi problema dal punto di vista della produzione e/o dell’esportazione si riverbera sui prezzi, rafforzando così la possibilità della Russia di utilizzare i rialzi a scopo politico». Intanto le bollette vanno alle stelle: solo lo scorso mese i prezzi energetici nell’Ue sono saliti di oltre il 38% rispetto ad agosto 2021.
«È chiaro che le sanzioni fanno male anche a chi le impone, non solo a chi le subisce», ci ricorda il presidente del Ce.S.I., Andrea Margelletti. «Tuttavia la responsabilità della nostra dipendenza energetica dalla Russia non è di Mosca: è di quegli stessi politici che magari oggi ne criticano gli effetti ma che poi hanno giustamente adottato le sanzioni, il cui fine è sempre politico», ossia il ripristino dell’integrità territoriale ucraina. «È il minimo sindacale, il ritorno al rispetto delle regole internazionali», sottolinea. «Le sanzioni servono proprio a evitare lo scontro armato, costringendo l’aggressore al negoziato», aggiunge il presidente del Ce.S.I. «In questo senso, la loro efficacia è evidente: unite agli aiuti militari, hanno permesso a Kiev di resistere. Senza, oggi l’Ucraina sarebbe un vassallo russo».
Le misure adottate contro l’industria della difesa di Mosca hanno avuto anche risvolti sul campo: «I russi hanno difficoltà ad accedere a pezzi di ricambio e materiali pregiati per i mezzi militari», rimarca Margelletti. Non solo: secondo l’intelligence Usa, le sanzioni stanno ostacolando le linee di rifornimento russe al punto che il Cremlino acquista proiettili di artiglieria e razzi dalla Corea del Nord. «Non è una questione tecnica, ma politica», ripete Margelletti. «Perché l’alternativa alle sanzioni è inimmaginabile».
Vorrebbe dire scatenare un confronto militare diretto, probabilmente nucleare, o mollare gli ucraini e ammettere la primitiva dottrina che la ragione è del più forte, rinfocolando mille altre crisi simili (da Taiwan al Kashmir, per restare in tema di potenze atomiche). L’efficacia di queste misure però dipende dall’obiettivo che i decisori politici e i loro elettori, distratti dalla campagna elettorale, si pongono. Far cadere Putin? Allora, come nei casi di Cuba, Iran e Venezuela, le sanzioni probabilmente non funzioneranno. Costringerlo a negoziare la pace sulla base del diritto internazionale? A voler essere ottimisti, ancora non funzionano. Impedirgli di fare del resto dell’Ucraina un sol boccone? Finora, hanno funzionato.