Guardiamoci allo specchio e vergogniamoci del nostro passato (di V. Magrelli)
Vuoi per il romanzo di Ray Bradbury, vuoi per il film di François Truffaut, vuoi per il programma di Radio Tre, tutti conosciamo il senso della formula Fahrenheit 451. Il titolo si riferisce a quella che Bradbury riteneva essere la temperatura di accensione della carta (i nostri 233 gradi). Nel suo romanzo distopico, infatti, i libri erano vietati e bruciati: l’unico modo per tenerli in vita era quello di impararli a memoria. La stessa cosa accadde nel campo di concentramento fascista di El-Agheila, in Libia. Qui vennero raccolti donne, bambini e anziani che avevano percorso quattrocento chilometri a piedi nel calore del deserto. Assieme a loro, uomini che si erano opposti alla politica imperiale italiana, combattendo a cavallo contro gli attacchi dell’aviazione, contro l’iprite, contro le bombe lanciate sui villaggi, là dove l’invasore riempiva col cemento i pozzi d’acqua. Così Mario Eleno e Manuela Mosè hanno rievocato la vita nel campo di El-Agheila, il centro di detenzione nel quale, malgrado carta e matita fossero bandite, Rajab Abuweish compose a memoria un poema di trenta strofe, trasmettendolo oralmente agli altri prigionieri, proprio come nell’incubo descritto in Fahrenheit 451. Si tratta dei versi che formano “Il mio solo tormento. Canto da El-Agheila”, di prossima uscita da Fandango Libri.
Era il settembre del 1931, spiegano i due curatori, e la guida del movimento di resistenza armata, Omar al-Mukthār, era appena stato impiccato pubblicamente. Tra i prigionieri che ascoltarono Rajab, c’era Ibrahim al-Ghomary, che in seguito, sopravvissuto alla chiusura del campo nel 1934, trascrisse il poema. Anche Rajab uscì vivo da El-Agheila, per morire nel 1952, pochi mesi dopo la dichiarazione di indipendenza della Libia. Nella sua prefazione, Antonio Scurati percorre le fasi salienti dell’avventura africana, con le dichiarazioni in cui Emilio De Bono, ministro delle Colonie, e Pietro Badoglio, governatore della Libia, decisero la creazione di campi di concentramento. Oggi, prosegue Scurati, quando si parla di tali funebri luoghi, pensiamo ad Auschwitz o tutt’al più alla Risiera di San Sabba, vicino Trieste. Certo è che siamo sempre portati a immaginarci come vittime della persecuzione, e mai come responsabili. Questo libro ci ricorda il contrario. Spesso scandite dalla ripetizione del primo verso, «Il mio solo tormento», le strofe ricordano i caduti della resistenza, le umiliazioni subite, l’impotenza davanti agli aguzzini o la libertà perduta. In tal senso, suona profondamente commovente ascoltare, uno accanto all’altro, il pianto per gli amici assassinati e quello per la splendida giumenta rubata dal nemico: «Leggera come una gazzella smarrita / il suo corpo finemente scolpito / come una moneta d’oro ben cesellata». Ecco perché questo canto di dolore ha la stessa funzione di uno specchio, dove guardare un passato di cui infine vergognarci.
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