Le grandi dimissioni travolgono anche il ricco Nord-Est italiano
Dopo la Lombardia, tocca al Veneto: l'esodo di massa stupisce solo in Italia. Dove da 30 anni è in atto un processo di sfruttamento dei lavoratori. Complice la deriva della sinistra
Se il 10% dei lombardi lascia volontariamente il posto di lavoro nell’ultimo anno, si può pensare che il mondo vada alla rovescia. E se poi anche i veneti decidono di dimettersi in massa, allora, forse, siamo alla vigilia della rivoluzione. La valanga delle dimissioni, un fenomeno prima americano e poi tracimato in Europa, ha investito le regioni del nord industriale dove il lavoro, il sacrificio personale, l’ascesa sociale che nasce in fabbrica e nelle botteghe artigiane, è la filosofia di vita di milioni di persone. Ora c’è una tendenza che emerge dalla società e nessuno sa dire se sia momentanea, oppure se prepara una metamorfosi profonda del pensiero e dei comportamenti delle persone che lavorano, del tessuto sociale che ha alimentato successi economici e crescita civile.
Lo scorso anno in Lombardia, regione con oltre 10 milioni di abitanti che nel 2020 ha generato il 22% del Pil nazionale, si sono dimessi circa 420.000 lavoratori su un totale di 4,4 milioni di occupati. A Milano, la capitale dell’economia della conoscenza, sono i giovani laureati, professionisti, specializzati a cambiare strada velocemente. In Veneto nei primi quattro mesi di quest’anno 66mila lavoratori si sono licenziati per iniziare un altro percorso. Sono scelte individuali, non ci sono crisi aziendali dietro questa fuga.
Le persone cercano una prospettiva diversa dal passato, una maggiore flessibilità di orari, magari un avanzamento di carriera, ma sono pronte a rinunciare a qualche vantaggio pur di aver una vita meno vincolata dalla fabbrica e dall’ufficio. Anche chi ha il contratto a termine (un boom nell’ultimo anno) non cerca in assoluto il posto fisso, ma un lavoro di qualità che conceda più tempo. Come giudicare questo fenomeno? Le dimissioni di massa possono essere il segno del dinamismo del sistema economico (mi dimetto, tanto un’altra occupazione la trovo), oppure la cartina di tornasole di un disagio diffuso che, dopo la pandemia, interroga le imprese, l’organizzazione del lavoro, le istituzioni e la rete di welfare.
Da una decina d’anni è in crescita, ad esempio, il welfare aziendale, creato dalla contrattazione sul territorio che produce un vantaggio per i dipendenti. Proprio in Veneto oltre dieci anni fa iniziò la sperimentazione del welfare Luxottica, la multinazionale degli occhiali di Leonardo Del Vecchio: sostegno ai lavoratori nelle crisi, aiuti per il carrello della spesa, rimborso dei libri di scuola per i figli, borse di studio, contributi per visite specialistiche e via di questo passo. Ma l’estensione degli accordi di welfare in azienda, un privilegio per pochi, è stata accompagnata dall’impoverimento del sistema di welfare pubblico e quindi del mondo del lavoro che oggi fa i conti con la fuga di molti. Negli anni Novanta ebbe un grande successo, anche in Italia, un libro del sociologo americano Jeremy Rifkin dal titolo “La fine del lavoro”. Sosteneva che la rivoluzione tecnologica avrebbe escluso i lavoratori dal ciclo produttivo perché le loro mansioni sarebbero scomparse, i cittadini sarebbero stati pagati per starsene a casa. Ma il lavoro non è finito: Internet, il digitale, le app hanno prodotto nuova occupazione.
Oggi, però, il lavoro non è più l’unica via dell’emancipazione e si può decidere di mollare. Una novità emersa nella lunga e dolorosa stagione della pandemia che ha costretto tutti a interrogarsi sul senso delle proprie scelte. In America la “Great Resignation” sembra una ribellione alle condizioni che il cittadino “esaurito” vive sul lavoro. Un’occupazione non soddisfa- cente per l’ambizione e la crescita personale, pagata male, con carichi elevati e condizioni generali poco rispettose. Le imprese hanno capito l‘allarme. Alcune multinazionali, usando gli slogan della sostenibilità e dell’inclusione, praticano la settimana lavorativa di quattro giorni (32 ore, meno delle 35 ore di Bertinotti su cui cadde l’ultimo governo Prodi) senza tagliare la busta paga. Altre offrono un premio d’ingaggio ai neo assunti, con partecipazioni al capitale in cambio di fedeltà: più anni in azienda più azioni.
Le dimissioni di massa e la ricerca di una diversa dimensione del lavoro andrebbero studiate a fondo e possono sorprendere solo chi pensa di perpetuare un processo di sfruttamento e di svuotamento del lavoro che in Italia dura da trent’anni in coincidenza con la deriva della sinistra, orfana della sua cultura e dei suoi valori, che ha pensato di modernizzarsi ascoltando le sirene neoliberiste e le difficoltà del sindacato a capire e gestire i cambiamenti. Forse le dimissioni sono l’ultimo grido, il gesto individuale di chi non può più sopportare questo sistema e cerca un’alternativa. Continua a leggere sul settimanale The Post Internazionale-TPI: clicca qui